24 Lug 2014

Da Gaza all’economia, al-Sisi cerca (a fatica) di seguire le orme di Mubarak

C’era una volta un Egitto che faceva il bello e il cattivo tempo in Medio Oriente. C’era un volta un rais inviso a tutti i suoi partner arabi e osservato con sospetto in occidente, le cui soluzioni salomoniche, tuttavia, sapevano arrestare le vampate di guerra che periodicamente seminavano morti e feriti tra israeliani e palestinesi. Oggi […]

C’era una volta un Egitto che faceva il bello e il cattivo tempo in Medio Oriente. C’era un volta un rais inviso a tutti i suoi partner arabi e osservato con sospetto in occidente, le cui soluzioni salomoniche, tuttavia, sapevano arrestare le vampate di guerra che periodicamente seminavano morti e feriti tra israeliani e palestinesi. Oggi di Hosni Mubarak nessuno sente la mancanza. Ma tra lui e il suo delfino, la differenza in fatto di spregiudicatezza diplomatica è notevole. Del presidente egiziano, l’ex generale Abd al-Fattah Khalil al-Sisi, è un errore ricordare soltanto le mosse che lo hanno portato al potere defenestrando il Fratello Musulmano, Mohammed Morsi. Con i suoi sessant’anni a novembre, di cui quasi quaranta passati indossando l’uniforme e una carriera più che dignitosa – attaché militare in Arabia Saudita e poi direttore dell’intelligence militare – il generale al-Sisi è il prototipo dei figli del regime di Mubarak. Sì, perché Mubarak di potenziali delfini (copie sbiadite) ne aveva tanti.

Tutti in linea con un paradigma che era proprio dello stesso rais: politico e ufficiale assieme, dalle maniere eleganti che piacciono agli interlocutori occidentali e con cui si affabulano le masse nel mondo arabo-islamico. Furono però gli stessi figli del regime, nel 2010, a sacrificare il padre. Per salvare la struttura delle forze armate egiziane (lobby dominante al Cairo) e onde evitare che il paese collassasse in una guerra civile. Oggi forse questo pericolo non è stato sventato del tutto. Ma il blocco alla falla sembra tenere. 

Premessa conclusa, ad al-Sisi, che formalmente è capo dello stato appena da un mese e mezzo, si è presentata subito l’opportunità di dimostrare che la rivoluzione del 2010 non ha cambiato assolutamente nulla. E che la comunità internazionale può fidarsi del suo Egitto come si fidava di quello di Mubarak. I tentativi di mediazione nella crisi di Gaza sono la dimostrazione delle ambizioni del presidente e del suo staff. Tuttavia i fallimenti di queste mediazioni possono far pensare che l’ansia da prestazione stia portando fuori rotta il governo del Cairo. Il cessate il fuoco proposto più volte da al-Sisi non è stato rispettato. La sua bozza di tregua è stata rigettata. Le manovre diplomatiche cairote sono apparse fragili agli occhi degli Stati Uniti e irricevibili sia da Hamas sia da Israele. Ma soprattutto dalla prima. 

Del resto davvero al-Sisi si era illuso di poter raccogliere consensi presso quel movimento islamico e palestinese che Mubarak & Co. in passato hanno perseguitato e censurato? Il generale-presidente era sinceramente convinto di essere riconosciuto come valido mediatore in seno a una costola della Fratellanza musulmana? Quella stessa Fratellanza che l’attuale governo del Cairo ha spiazzato lo scorso anno con un inequivocabile colpo di Stato.

Nota bene: né i palestinesi né Hamas, ma soprattutto quest’ultima, godono ultimamente di grande sostegno in Egitto. Instabilità interna e povertà hanno reso l’opinione pubblica nazionale progressivamente disinteressata al dramma di Gaza. Può esser quindi che il fallimento dell’attuale mediazione passi quasi sotto silenzio per l’opinione pubblica egiziana.

Ma non è soltanto il caso della Striscia a far dubitare del carattere autorevole di al-Sisi. Con Mubarak all’ultimo atto, gli analisti parlavano dell’Egitto come di una potenza sul viale del tramonto. Corruzione, analfabetismo e arretratezza economica erano mali endemici che né i visitatori stranieri riuscivano a intuire né la stessa classe dirigente (che è quella tuttora al vertice) percepiva. Di fronte al declino del paese si volgeva lo sguardo altrove. Oggi l’Egitto non ha invertito la rotta. O meglio, la sua buona volontà forse sta maturando. Mancano però risorse e fiducia.

Intervistato recentemente dalla Reuters, l’economista peruviano Hernando de Soto ha riconosciuto la sostenibilità delle riforme progettate o comunque accennate da al-Sisi. L’impegno per arginare la dilagante economia informale (e in nero) e un nuovo sistema amministrativo fanno parte dell’agenda al-Sisi. Il riconoscimento di de Soto è credibile, perché già in passato lui e il suo staff erano stati chiamati dal Cairo per intervenire sistematicamente sull’economia del paese. Peraltro, due anni fa, i primi a convocare l’economista peruviano sono stati i Fratelli musulmani. Quindi, da questo punto di vista, si può parlare di continuità tra le presidenze Morsi e al-Sisi. Sia il primo che il secondo sono consapevoli che i mali endemici dell’Egitto necessitano di una cura economica trascendente le derive confessionali (e ideologiche) quanto militaresche. «Gli egiziani però non hanno fiducia nelle istituzioni», ha constatato de Soto.

Del tutto diverso è invece l’atteggiamento che al-Sisi sembra abbia assunto nei confronti dei cristiani. Altro punto dolente che affliggeva l’ultimo Mubarak e che poi esplose – rischiando di trascendere in uno scontro confessionale – durante la presidenza Morsi. I copti, si sa, non sono così inclini a seguire alla lettera l’invito evangelico di porgere l’altra guancia. E nei secoli infatti hanno saputo come replicare agli attacchi dell’Islam più radicale. Tuttavia, è innegabile lo status di crescente emarginazione e poi di persecuzione cui erano stati costretti i cristiani prima con il rais, poi con il governo della Fratellanza. Oggi, l’attuale leader egiziano pare che abbia ripreso la politica laica propria del regime Mubarak fino a una quindicina di anni fa. Merito il fatto che al-Sisi, come tutti gli alti ufficiali, sia stato addestrato a disinteressarsi della fede del proprio commilitone. Purché sia un bravo egiziano e un efficiente soldato. 

Fatte le somme, quindi, il bilancio di al-Sisi è in perdita. Né l’apertura ai copti né la stabilità politica bastano per far sì che il presidente dorma sonni tranquilli. La crisi di Gaza rischia di tornare ingestibile all’Egitto. E quindi essere risolta dalla Turchia o dal Qatar. Questo per Il Cairo sarebbe davvero uno smacco. Sul fronte economico, le riforme richiedono iniziative impopolari, di cui Morsi era consapevole e per le quali ha perso l’appoggio della piazza. Iniziative popolari che vorrebbero la definizione di un piano strategico per la crescita del paese, sostenibile sul lungo periodo, che includa il taglio ai sussidi statali, i quali altro non fanno che creare un aggravamento del divario tra ricchi e poveri, e l’introduzione un vero Welfare state, che finora l’Egitto non ha avuto. 

Tra le mani di al-Sisi, quindi, resta la continuità con Mubarak. Un elemento tutt’altro che favorevole. A meno che non si recuperi la memoria del rais degli anni Ottanta e Novanta. Ovvero quello dell’apertura ai mercati internazionali e delle scelte diplomatiche coraggiose. Erano gli anni in cui Mubarak si confrontava alla pari con l’Urss, dichiarava guerra al fratello arabo Saddam Hussein e faceva sperare che dalle sponde del Nilo potesse sorgere un Egitto moderno e trainante per l’intera Lega araba. È passato tanto tempo, però. Spesso i figli dei grandi leader ricalcano a fatica le orme dei padri. Soprattutto quando sono vittime della sfiducia popolare e preda delle personali ansie da prestazione.

 
Antonio Picasso, giornalista freelance

Pubblicazioni

Vedi tutti

Eventi correlati

Calendario eventi
Not logged in
x