21 Lug 2014

I confini inquieti dell’Arabia Saudita fra Isis, Aqap e huthi

Da alcune settimane, gli episodi di violenza lungo il perimetro geografico del regno saudita si stanno moltiplicando. Il 6 luglio, al-Qaida nella Penisola arabica (Aqap) ha rivendicato l’assalto armato e suicida al checkpoint militare saudita di al-Wadia, al confine con l’Hadramaut yemenita, costato la vita a una decina di persone, fra terroristi e forze di […]

Da alcune settimane, gli episodi di violenza lungo il perimetro geografico del regno saudita si stanno moltiplicando. Il 6 luglio, al-Qaida nella Penisola arabica (Aqap) ha rivendicato l’assalto armato e suicida al checkpoint militare saudita di al-Wadia, al confine con l’Hadramaut yemenita, costato la vita a una decina di persone, fra terroristi e forze di sicurezza. Negli stessi giorni, tre razzi katyusha sparati dall’Iraq (dove l’affermazione di Stato Islamico ha rinvigorito anche le milizie sciite) hanno colpito l’area di Arar, regione settentrionale dell’Arabia Saudita. Infine gli huthi – i dissidenti sciiti zaiditi dello Yemen – stanno avanzando militarmente nel nord del paese, premendo sia sul confine saudita che verso Sana’a: una dinamica che mette a rischio la tenuta politica, oltre che la credibilità, del transitorio governo di unità nazionale, nato dall’accordo negoziato dalle monarchie del Golfo, quindi da Riyadh. Isis, Aqap e gli huthi hanno un comune denominatore: l’odio verso la dinastia degli al-Sa‘ud, gli alleati storici – a dispetto delle recenti difficoltà – degli Stati Uniti. Nonostante il regno saudita sia in grado di contenere, anche da un punto di vista militare, la pressione simultanea esercitata nei confronti del suo confine settentrionale (Iraq) e meridionale (Yemen), ciò dà il senso dell’insidioso, sfuggente quadro regionale nel quale l’Arabia Saudita deve ora muoversi. Specialmente lungo confini statuali artificiali, scritti sulla sabbia del deserto, che non corrispondono a linee di demarcazione umane, data la persistenza dei legami clanici, tribali e delle reti economico-commerciali di tipo informale a essi collegate.

Dopo l’autoproclamazione del califfato islamico da Raqqa (Siria settentrionale) a Diyala (Iraq orientale), i sauditi hanno dispiegato più di 30 mila uomini delle forze di sicurezza – fra esercito e Guardia nazionale – per proteggere il lembo di terra fra Arabia e Iraq, a seguito del ripiegamento dei militari di Baghdad. Infatti, al di là del confine è già Anbar iracheno, regione che per prima ha ceduto a Isis nell’intento di cacciare l’esercito regolare, come avvenuto a Falluja. Successivamente alla caduta del regime di Saddam Hussein, che ha consegnato l’Iraq alla sfera d’influenza iraniana, il regno wahhabita ha costruito tre segmenti di muro, alti sette metri, in prossimità dello stato iracheno. Una barriera di sicurezza, coadiuvata da un costoso sistema di sorveglianza elettronica, che però non impedisce eventi come quello di Arar, o nel novembre 2013, la caduta di sei colpi di mortaio a Hafr al-Batin, episodio rivendicato dalla milizia sciita al-Mukhtar. A preoccupare i sauditi è anche la tenuta del passaggio giordano fra Iraq e Arabia, soprattutto ora che israeliani e palestinesi vivono l’ennesima fiammata di violenza (la Giordania, già provata dall’afflusso di profughi siriani, ospita una folta comunità palestinese).

Da anni l’Arabia Saudita sta costruendo una barriera di sicurezza anche a ridosso del confine sud, quello yemenita, preoccupata dagli ingenti flussi migratori, specie attraverso il passaggio occidentale di Haradh, oltre che da traffici illeciti e terrorismo; lavori di edificazione spesso interrotti a causa delle proteste delle molte tribù beduine dedite alla pastorizia, abituate a muoversi liberamente fra i due paesi. D’altronde, c’è inquietudine a Riyadh: dopo le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, l’espansione territoriale degli huthi nello Yemen ha portato al consolidamento, nei fatti, di un autogoverno sciita nell’area settentrionale del paese. Ovvero al confine con il gigante sunnita. Per controbilanciare la forza militare e politica del movimento degli huthi (accusato di ricevere sostegno materiale dall’Iran e dagli Hezbollah libanesi) i sauditi non hanno esitato, negli anni, a finanziare i gruppi salafiti locali, come la madrasa di Dar al-Hadith, epicentro dello scontro fra huthi e salafiti (vinto dai primi) riaccesosi nell’ottobre 2013 e diffusosi poi fino a lambire Sana’a. 

L’Arabia Saudita teme il crescente potere del movimento sciita zaidita nello Yemen poiché gli huthi (che negano di essere duodecimani come gli sciiti iraniani, ma che ora celebrano la Ashura alla loro maniera) stanno dimostrando di saper giocare non solo sul terreno militare, ma anche sul tavolo politico, facendo propri gli slogan anti-sistema e anti-corruzione che animarono, nel 2011, la rivolta contro Saleh. Inoltre, dopo aver partecipato alla conferenza di Dialogo nazionale, delegati del movimento politico (Ansarullah) fanno ora parte della commissione incaricata di redigere la nuova costituzione, nonché di attuare la riforma in senso federale dello stato. Dopo aver conquistato Amran, fortino del potente clan sunnita degli al-Ahmar, a soli cinquanta chilometri dalla capitale, gli huthi hanno accettato di ritirarsi dalla città, pronti a capitalizzare politicamente le vittorie sul campo, magari dettando i confini delle nuove regioni settentrionali dello Yemen.

Sono dunque molti i fronti di crisi che circondano ora il territorio dell’Arabia Saudita. Tuttavia, il massiccio dispiegamento di forze di sicurezza a protezione dei confini con Iraq e Yemen non dovrebbe esporre il regno a vuoti di sicurezza interni, qualora si dovessero verificare (improbabili) problemi di ordine pubblico. Infatti, secondo i dati al 2012 del Gulf Military Balance, Riyadh dispone – limitatamente alle forze di terra – di almeno 100mila uomini della Guardia Nazionale, 75mila dell’esercito, oltre ai 15mila componenti delle forze paramilitari. Gli al-Sa‘ud stanno poi confermandosi abili nel deviare le pulsioni jihadiste domestiche verso il resto del mondo islamico: molti sauditi combattono oggi in Siria, Iraq e Yemen, ovvero al confine con la propria nazione. Per Riyadh l’esportazione del jihad è ancora uno strumento di protezione degli equilibri interni, nonostante il rischio che i mujaheedin facciano ritorno in patria, magari incoraggiati da quei confini sempre più permeabili.

Eleonora Ardemagni, analista in relazioni internazionali, collaboratrice di AffarInternazionali, Aspenia, Limes.

 

 

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