«Sono partita adesso, non vedo l’ora di incontrarlo». D’accordo, origliare la conversazione di una ragazza in metropolitana non è carino, ma all’alba di uno sciopero generale dei mezzi pubblici, col vagone chiuso a pressione, è difficile farsi gli affari propri. Ha l’espressione rilassata e, mentre due individui al suo fianco si litigano urlando un preziosissimo posto a sedere, lei si alza e inizia a contare sottovoce le fermate che la dividono dall’incontro col Dalai Lama.
«Ok, quantomeno sono sul treno giusto», penso io, che di buddismo tibetano - eccezion fatta per le questioni politiche - so veramente poco. La direzione è la Fiera di Rho Pero, dove solitamente vengono esposti mobili, scarpe o moto da corsa. «Perché non lo organizzano in un posto più affascinante», mi chiedo. E la risposta la trovo all’entrata, tra il massiccio cordone di polizia e le classiche bancarelle con gioielli e tessuti: diecimila persone ordinate, in attesa di Tenzin Gyatso.
Spacca il secondo, Sua Santità. Monta sul palco e saluta i presenti con teneri gesti, un mix di affetto e complicità. Dà una lettura al manuale di preghiere distribuito in sala, si sistema gli occhiali e si mette a sedere. «Mi sentite anche laggiù in fondo», si assicura dopo le primissime parole, innescando la risposta della folla. Il suo sorriso cattura, ha già conquistato tutti: è lassù in cima, sulla sua tradizionale poltrona, ma è come se fosse in mezzo alla gente.
Mi guardo intorno e cerco di capire dove sono: alla mia sinistra c’è un gruppo di buddisti, tutti con la tradizionale tunica rossa, alcuni addirittura con le gambe incrociate sulla piccola sedia, sfidando le leggi della fisica. Di fronte a me, un ragazzo dello staff canticchia una preghiera vietnamita che una delegazione di fedeli intona davanti al Dalai Lama. C’è anche chi prova a farsi un selfie col maxi schermo sullo sfondo e chi chiude gli occhi per cercare la concentrazione. Forse.
«Al mondo siamo tutti uguali, abbiamo due occhi, un naso e una bocca», esordisce sorridendo Sua Santità. Non sembra prendersi troppo sul serio, seppur il suo messaggio arrivi forte e chiaro: «Tutti vogliamo raggiungere la felicità. Lo sviluppo materiale può essere d’aiuto, ma non è sufficiente a livello emotivo». Ho già lo sguardo fisso verso di lui, ma il terribile odore di un tonico che un mio vicino si passa sul viso mi risveglia dal viaggio mistico. «La rabbia…», aggiunge. Ecco, appunto.
«…bisogna liberarsi della rabbia perché mangia il sistema immunitario». Spalanco gli occhi. A dirlo è un personaggio costretto dal governo cinese a lasciare il suo Tibet nel 1959 e a vivere in esilio. Nessun rancore. «L’esistenza di ogni cosa si fonda su una continua relazione con le altre, niente esiste in modo autonomo», aggiunge, spiegando il principio buddista dell’interdipendenza. «Siamo legati gli uni agli altri e questa consapevolezza è la base dell’amore, della compassione e dell’altruismo».
Quelle tre parole rimbalzano nel padiglione e nella mia testa come palline di un flipper. La folla lo ascolta incantata, mentre io ripenso a quei due che di prima mattina si litigavano a male parole un posto sulla metro. Forse è davvero come dicono i cinesi, nel mondo di oggi il Dalai Lama è da considerarsi un «sovversivo». Per fortuna.