C’è una parte di Alitalia che compatta e decisa ha scelto di respingere l’intesa sottoposta a referendum. Il rischio per l’azienda è che questo blocco interno, fatto di piloti e assistenti di volo, diventi entro questa sera la maggioranza dei lavoratori. Mancano infatti solo poche ore per conoscere il destino della compagnia aerea, le urne chiuderanno alle 16, e per questa parte di lavoratori la scelta di votare No all’accordo è sempre più decisa, quasi rabbiosa. L’intesa che prevede tagli agli stipendi dell’8% non va giù al personale di volo e la voglia di mandare tutto all’aria prevale rispetto alla possibilità di dare una nuova chance alla compagnia. Soprattutto perché tra i dipendenti circola sempre più insistentemente la voce che comunque una soluzione si potrà trovare. Ma in realtà un piano B non esiste. Se dovesse vincere il No infatti l’unica strada percorribile è l’amministrazione controllata e la liquidazione della compagnia.

Secondo l’Anpac, l’associazione nazionale piloti aviazione commerciale, l’accordo fa «scegliere tra la padella e la brace». Nonostante questo Antonio Divietri, segretario generale del sindacato, ha suggerito di votare Sì all’intesa perché «non c’è un’alternativa». Gran parte dei piloti però non è di questo avviso. Così come non lo è Marco Veneziani, fondatore dell’associazione dei piloti Anp e favorevole al No: «Non si possono chiedere sempre sacrifici ai lavoratori. Se passa il No - ha detto - il governo deve fare di tutto per mandare avanti Alitalia nel miglior modo possibile. La compagnia è un asset per il Paese e il governo deve farsene carico». La possibilità dunque che venga trovata un’altra via per mettere in salvo un’azienda fondamentale per il Paese è un’ipotesi in cui ancora molti credono. E c’è chi, come il sindacato di base Usb, vuole direttamente la nazionalizzazione. «Hanno fatto pagare tutte le crisi a noi - racconta un pilota di lungo corso che preferisce non esporsi in una situazione così delicata - Siamo arrabbiati. Questo nuovo piano non serve a nulla e comunque tra nove mesi ci ritroveremo nella stessa situazione di oggi».

L’oggetto del referendum è l’intesa siglata tra azienda e sindacati il 14 aprile scorso, che prevede per il personale di terra 980 esuberi ancora virtuali, perché i lavoratori avranno due anni di cassa integrazione straordinaria con l’80% della retribuzione, poi potranno essere riassorbiti dall’azienda oppure potranno usare due anni di Naspi, l’ex indennità di disoccupazione. Per il personale di volo invece è previsto un taglio degli stipendi dell’8% oltre alla riduzione dei riposi annuali da 120 a 108 giornate. Sono loro a lamentare un trattamento peggiore e a rigettare senza ripensamenti l’intesa.

Di fronte al convincimento di molti dipendenti che comunque lo Stato interverrà per salvare l’Alitalia, ieri il ministro Graziano Delrio ha nuovamente messo in chiaro che «non c’è un’altra soluzione né possibilità di nazionalizzazione, bisogna seguire con coraggio la strada iniziata», e cioè dire Sì e tentare il rilancio. L’intervento pubblico infatti non è mai stato contemplato dal governo, anche perché violerebbe la normativa europea. Sul tema è intervenuto l’altro ieri anche il premier Paolo Gentiloni che ha spiegato che «senza intesa l’Alitalia non potrà sopravvivere». Insomma, non esiste un piano B e per questo l’auspicio è che i lavoratori (ieri sera ha votato oltre il 70%) diano il via libera all’accordo, anche se il timore è che il referendum si sia ormai trasformato in un voto di protesta.

Lo schema in caso di vittoria del No è già stato disegnato. Per domani sarebbe convocato un consiglio di amministrazione d’urgenza per prendere atto della decisione dei lavoratori e avviare la procedura per la richiesta di amministrazione straordinaria. In questo caso Alitalia si avvierebbe verso un ridimensionamento: il commissario infatti potrebbe tagliare circa metà del personale e mettere in liquidazione la società, facendo di Alitalia uno «spezzatino». In caso di vittoria del Sì invece il consiglio di amministrazione è programmato per mercoledì mattina, per avviare l’operazione finanziaria da due miliardi, di cui 900 milioni di nuova finanza, da parte degli azionisti, Etihad, Unicredit e Intesa SanPaolo in testa.

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