Venezia 2012, fuori dalla Palazzina Grassi, come se fosse un film: la prima, e l’ultima, volta che ho visto Philp Seymour Hoffman, appena trovato morto per overdose a 46 anni. Quello che per me era un vero mito cinematografico se ne andava barcollando un po’ (parecchio) dalla festa che Vanity Fair aveva organizzato per il film di cui era uno dei protagonisti, The Master.
Uno degli attori che ho amato di più lasciava la festa. E ora lascia tutti.
Quello di Boogie Nights (1997) e del Grande Lebowski (1998), del Talento di Mr Ripley (1999) e di Truman Capote – A sangue freddo (nel 2006, con Oscar, prima di altre tre nomination, The Master compreso) e soprattutto, per me, di Magnolia (1999). Ma anche della 25esima ora (2002) come di Mission Impossible: III (2006) e di Hunger Games.
Che, se scavi, lo ritrovi pure nel 1992 nel Scent of Woman di Al Pacino. Nel suo ruolo perfetto: attore non protagonista, con esecuzione sempre perfetta, che ti lasciava secco. Anche quando era il prim’attore per carità, vedi Oscar. Uno che sembrava bulimico di ruoli e di film, che ti chiedevi come faceva. Forse voleva solo riempire un vuoto.
Accanto a lui, quel 2 settembre 2012, barcollava, anche di più, l’altro protagonista Joaquin Phoenix, uno che aveva visto il fratello maggiore River, altro attore che ti resta scolpito in testa, morire, quasi vent’anni prima, anche lui per overdose. Lo aveva accompagnato fuori proprio Joaquin: River morì su un marciapiede di Los Angeles, davanti al locale di Johnny Depp, nella notte di Halloween del 1993.
Quando senti che anche Philip è morto così, lui a casa sua a New York, pensi a una maledizione e agli attori maledetti. Se lo vedevi però, sullo schermo e soprattutto di persona, Seymour Hoffman non era così. Era un volto gentile, come al cinema. Mentre andava verso il taxi d’acqua era lui che cercava di sorreggere Joaquin a Venezia, come per mostrarsi ancora quell’uomo normale che aveva raccontato con quella faccia in tanti film. Anche se, forse, aveva un buco dentro.
Eppure per lui a Venezia quella era stata una giornata difficile. In conferenza stampa, mentre Joaquin fumava (poco dopo avrebbe litigato con i fotografi), venne attaccato personalmente. Il film The Master parlava di una religione che assomigliava parecchio a Scientology. E lui era proprio The Master, il maestro di quel credo.
Uno che assomigliava molto a un amico di Scientology lo attaccò personalmente citando fatti personali, contando i giorni che erano passati dal suo ultimo tweet: «Lei ha un problema». L’attacco colpiva dove sapeva di far male. Philip non reagì. Ma soffriva, e si vedeva. Anche quella sera mentre è scomparso dallo sguardo salendo su un motoscafo e sostenendo Joaquin, si vedeva che soffriva ancora.
Alla festa avevano solo bevuto, abbastanza. Si dice che avesse ripreso solo con la droga, passando per i tranquillanti, solo di recente, dopo più di vent’anni. Di sicuro nel 2013 era entrato in rehab per eroina ed era uscito da poco. E viene pure da chiedersi: ma servono questi rehab? Come son gestiti? Anche Cory Monteith, la star di Glee, morto il 13 luglio 2013 a 31 anni per overdose, era appena uscito da un centro di disintossicazione. Anche Cory con una ricaduta dopo un passato di droga quand’era ancora più giovane.
O forse semplicemente nemmeno i rehab riempiono il vuoto che qualcuno di speciale, o meno, può ritrovarsi dentro.
Di Philip, sparito per me in quella notte manco a dirlo piovosa della Laguna di Venezia, in quel settembre 2012, e per tutti ora (me compreso, con un dolore vero personale), amo soprattutto un ruolo: l’infermiere chiamato ad assistere un malato terminale in quel grandioso capolavoro corale che è Magnolia. Cerca il figlio che l’uomo che sta morendo non vede più da anni (Tom Cruise) e chiede aiuto al telefono.
«So che tutto questo sembra strano, e io ridicolo, come se fosse la scena del film dove uno cerca il figlio che non vede da anni, ma questa è quella scena, e penso che facciano queste scene nei film perché sono vere. Ti prego questa è la scena del film in cui tu mi aiuti».
Con il please in lacrime di un uomo che fa col cuore il suo lavoro, parecchio atroce.
Chissà quanti please ha chiesto, anche a se stesso, Philip, anima fragile e delicata.
Pure la sua morte è stata la scena di un film. E fanno queste scene nei film perché sono vere. Please, diteci che non è vero, diteci che era la scena di un film. E che alla fine Philip aveva trovato qualcuno disposto ad aiutarlo.