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Sequestro Open Arms, il capomissione: «Rifaremmo quello che abbiamo fatto»

Intervista a Riccardo Gatti alla guida di metà delle missioni in mare dell'ong Proactiva Open Arms, la cui nave è sotto sequestro a Pozzallo da domenica scorsa. «È assurdo questo attacco indiscriminato a chi salva vite umane, la nostra coscienza è del tutto a posto e provo vergogna per quanto si è caduti in basso, la solidarietà non è un reato»

di Daniele Biella

La persona nella foto si chiama Riccardo Gatti. A fine aprile varcherà la soglia dei 40 anni, di cui 17 vissuti in Spagna, i precedenti nel lecchese, dove è nato. Gli ultimi due, in realtà, li ha spesi più sul mare che a terra: come capomissione della nave di soccorso umanitario nel Mediterraneo dell’ong Proactiva open arms. Proprio quella nave che dalla sera di domenica 18 marzo 2018 è ferma nel porto di Pozzallo perché sequestrata dalle autorità italiane in attesa di procedimento a giudizio da parte della procura di Catania. Il motivo principale? “Non avere riconsegnato le persone recuperate in mare, tra cui anche un bambino molto piccolo (come si vede in questo video, ndr), all’unità della Guardia costiera libica che con minacce di morte all’equipaggio ne chiedeva la consegna per riportarle in Libia”, spiega a Vita.it Gatti. Non era sulla nave in questa 43sima missione dell’ong – la prima è partita nell’estate 2015, 27mila le persone salvate finora – che pochi giorni prima aveva portato a terra diversi eritrei debilitati dal lungo tempo nelle prigioni illegali libiche, tra cui Segen, che è morto di stenti all'arrivo a Pozzallo a soli 22 anni e 35 chili. Doveva esserci Gatti al posto della capomissione spagnola ora sotto indagine ma alla fine lui ha optato per un periodo di stacco in un altro continente, da cui è rientrato bruscamente però proprio per quello che è successo: “non posso stare lontano dai volontari di Proactiva proprio ora in questi momenti così difficili e assurdi”, dice con un tono deluso ma risoluto. Nel pomeriggio di oggi mercoledì 21 marzo si è recato a Roma, dove dovrebbe incontrare il Prefetto capo del ministero degli Interni, Mario Morcone, per poi recarsi alla conferenza stampa indetta dal senatore uscente Luigi Manconi.

Con la nave sequestrata, cosa succede ora?
Siamo in attesa di avere le notifiche finali per le persone coinvolte direttamente, in particolare la risoluzione del Gip, Giudice indagini preliminari. Il capitano della nave e la capomissione, direttamente coinvolti, sono rimasti in Sicilia mentre il resto dei volontari che erano a bordo sono tornati loro malgrado nei luoghi di provenienza nonostante la 43sima missione fosse appena iniziata. Gli avvocati di Proactiva stanno lavorando e quindi aspettiamo fiduciosi, anche se con sentimenti davvero contrastanti. Nel frattempo puntiamo a riportare nel Mediterraneo centrale l'altra nostra nave, il veliero Astral, che ora si trova sulla costa spagnola.

La solidarietà che vi sta arrivando da tutto il mondo ha reso insignificanti le voci di “esultanza” alla notizia del vostro fermo. Cosa vi dite, quali sono le reazioni di queste ore di voi volontari di Proactiva?
Può sembrare strano ma abbiamo l’animo alto, molto alto. La speranza che tutto finisca bene c’è, perché quello che sta accadendo, è talmente assurdo che ci fa mantenere lucidità nonostante ci sia un po’ di paura, è inutile negarlo, perché per i reati contestati si potrebbe arrivare addirittura a sette anni di carcere. Ci troviamo di fronte a un chiaro e indiscriminato attacco alla solidarietà. Ma noi non abbiamo nulla di cui pentirci e rifaremmo anche subito quello che abbiamo fatto. Proactiva open arms ha firmato fin da subito il codice di condotta voluto dal ministro dell’Interno italiano, ha collaborato con la Guardia costiera italiana fin dal primo momento e così ha fatto anche in quest’ultima missione. Noi che siamo coinvolti oramai siamo pronti a tutto, ma se provi a “uscire” un attimo e guardare da fuori tutta la situazione ti rendi conto di quanto sia assurda la situazione. Un amico che vive in Asia da due anni senza troppo contatto con il mondo per scelta mi ha contattato in questi giorni: sapeva poco nulla dell’attività di Proactiva e quando ha raccolto le informazioni è rimasto letteralmente senza parole. Mi vergogno come essere umano a vedere come siamo caduti così in basso.

Secondo voi perché è in atto questo diffuso attacco alla solidarietà verso i migranti forzati?
Perché i poteri forti hanno gettato la maschera e non guardano in faccia a nessuno. È spregevole nascondersi dietro a codici di condotta e richiami alla legalità quando c’è in gioco la vita di migliaia di persone. Noi è da tempo che ci sentiamo nel mirino, fin da quando abbiamo preso richiami e multe per avere conservato il pane nel congelatore o avere sbagliato la prassi sullo smaltimento della spazzatura durante uno sbarco. Quella della Proactiva è la seconda nave messa sotto sequestro, perché dalla scorsa estate è ferma a Trapani la Iuventa della ong Jugend Rettet, e non mi sorprenderei se tra poco, quando verrà finalmente presa una decisione in sede legislativa, tale nave venga dissequestrata per l’inconsistenza della accuse, come tra l’altro ha rilevato in un recente studio un pool di esperti di un’agenzia forense dell’università di Londra.

Cosa rispondere a chi chiede che le navi come quella di Proactiva – che batte bandiera spagnola – debbano portare le persone salvate non solo in Italia e quindi, per esempio, anche in Spagna?
Fondamentalmente che le persone recuperate in mare vanno portate nel place of safety, posto sicuro più vicino. Noi ci atteniamo a questo da sempre. Il place of safety ci viene comunicato ogni volta dall’IMRCC, il Comando centrale della Guardia costiera, e finora è stato sempre l’Italia, a parte le evacuazioni urgenti di casi gravi come avvenuto qualche giorno fa per un bambino consegnato in mare con la sua mamma alle autorità di Malta. Le disposizioni sul porto più sicuro e vicino, del resto, seguono le normative internazionali in materia di salvataggio marino.

E come ribattere a chi vede nell’attività di Proactiva e di chiunque salvi vite umane in mare un interesse economico, per esempio nella critica in voga che vi vede “cercare di salvare più gente possibile per aumentare le donazioni verso la ong”?
Dico a queste persone che possono non credere a quello che diciamo. Non ci ascoltino, piuttosto cerchino le notizie da soli, per esempio entrando in youtube e digitando le parole “Libia”, “migranti”, “neri”, in italiano o in inglese. I video sono tanti e di molti è sicura l’autenticità. Non chiedo loro di fare un afull immersion dell’orrore o una sorta di “arancia meccanica”: bastano 10-15 minuti di visione di questi video per capire di cosa stiamo parlando. Ridare ai libici le persone che salviamo in mare significa molto probabilmente farle tornare in quei posti di violenza e tortura. Lo dicono da tempo anche le Nazioni unite (l’ultimo report ufficiale, a firma del segretario generale dell’Onu, è stato divulgato nei giorni scorsi, ndr), ma soprattutto a noi lo dicono la gran parte dei migranti che salviamo.

Cosa ti raccontano?
Sono due anni che vedo nei loro occhi, nei loro corpi l’orrore, ancora prima dei loro racconti che arrivano come un fiume. Ho coordinato circa la metà delle missioni nel Mediterraneo centrale di Proactiva, questo significa che ho incrociato almeno 13mila delle 27 mila persone salvate, e i racconti sono chiari e univoci pur nelle loro differenze. Ci dicono che trafficanti e guardiacoste sono due facce della stessa medaglia, che non c’è alcuna sicurezza né diritto umano rispettato. La cosa sconvolgente è che nonostante tutto queste persone sono partite lo stesso dai loro Paesi di provenienza per la Libia, per cercare una vita migliore nonostante sapessero dell’eventualità di finire nelle mani degli aguzzini. Questo deve far pensare noi occidentali: le storie che raccontano fanno capire che nei Paesi di provenienza non si sta affatto bene, e spesso per responsabilità occidentali nello sfruttamento delle risorse minerarie e petrolifere così come nell’appoggio a regimi dittatoriali. Le persone questo lo dicono senza remore, e probabilmente il tentativo di criminalizzare la solidarietà ha come fine proprio il non fare arrivare ai nostri orecchi questi racconti, perché altrimenti il mondo reagirebbe in modo diverso, magari chiedendo con forza il cambiamento del sistema ai propri governi.


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