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Ragazza pakistana da Verona costretta ad abortire in patria

Messaggi alle amiche, non ancora rientrata. Indagini Digos

Hanno detto no a quell'amore occidentale nato tra i banchi di una scuola di Verona. Hanno detto no e l'hanno costretta a rinunciare al suo bambino. E con una scusa, quella del matrimonio del fratello nel suo paese, il Pakistan, l'anno portata via da Verona. E lì Farah, studentessa di 19 anni si è trovata segregata dai famigliari, che l'avrebbero costretta ad abortire il bimbo che aveva concepito con un compagno di scuola, nella città veneta.

Dal Pakistan poi la disperata richiesta di aiuto della giovane: messaggi via WhatsApp alle compagne di classe per descrive l'incubo, poi il silenzio e le indagini della Polizia. Sulla vicenda, che non può non far pensare alla tragica fine di Sana Cheema, la 25enne anni di Brescia, uccisa in Pakistan dal padre e dal fratello per aver rifiutato un matrimonio combinato, è intervenuta anche la Farnesina, chiedendo all'all'ambasciata d'Italia ad Islamabad di verificare con urgenza, con le autorità locali, le notizie relative alla studentessa residente a Verona. Un episodio che, se sarà accertato, sarebbe gravissimo. "L'Italia - scrive il ministero degli esteri - difende con forza e in ogni circostanza il rispetto dei diritti umani e delle libertà e i diritti fondamentali sulla base della parità di uomini e donne".

Anche questa volta ad essere contrastato con la violenza c'è l'amore, nato tra i banchi di scuola, tra la ventenne e un suo compagno di studi in un istituto superiore scaligero, e un bambino, che sarebbe dovuto nascere in estate. Per facilitare il parto, i dirigenti scolastici avevano anche pensato di anticipare per la ragazza gli esami di maturità, per permetterle di portare a termine la gravidanza in modo sereno. La storia della giovane non è facile. Il nucleo familiare vive a Verona dal 2008; il padre, proprietario di un negozio in città, era stato denunciato per maltrattamenti e a settembre la ragazza si era rivolta ai servizi sociali del Comune, che per qualche tempo l'hanno ospitata in una struttura protetta nell'ambito del 'Progetto Petra' contro le violenze di genere. Il 9 gennaio, però, la svolta. La ventenne lascia la casa protetta dicendo di essersi riconciliata con i parenti. Poco dopo c'è stata la partenza per il Pakistan, giustificata dal matrimonio del fratello. Da quel viaggio però, non è più tornata, e alle amiche della classe sono cominciati ad arrivare messaggi scritti e vocali in cui la ragazza descriveva un incubo: chiusa in camera, legata a un letto, sedata con pillole fino all'intervento di una dottoressa che le avrebbe procurato l'aborto, la paura. Poi, il silenzio.

La rete scolastica si è attivata, a partire dalle compagne fino alla dirigenza, e da qui alla Digos della Questura scaligera, che ha anche attivato il consolato pakistano in Italia. Anche il fidanzato veronese aveva lanciato l'allarme al progetto Petra. L'assessore ai servizi sociali, Stefano Bertacco, ha riferito che padre e fratello sarebbero rimasti a Verona per badare agli affari, e la giovane sarebbe sorvegliata in patria dalla madre e da una sorella. L'incubo vissuto dalla studentessa pakistana è stato condannato nel nostro paese in modo netto da tutte le forze politiche. Per il senatore dl Pd,Vincenzo D'Arienzo "nessuna propaganda, ma la richiesta di certezze e di giustizia. Con un'interrogazione parlamentare ho chiesto al ministro degli Esteri di fare la propria parte affinché sia accertata la verità, i responsabili vengano puniti e la ragazza sia riportata al più presto al sicuro a Verona".

Chiarezza è stata chiesta anche da Paolo Grimoldi, deputato della Lega e segretario della Lega Lombarda: "anche questa vicenda, ha detto Grimoldi, su cui invitiamo la Farnesina ad attivarsi subito per fare luce su quanto sta accadendo, conferma che un certo Islam radicale ed estremista non è in alcun modo compatibile con il nostro modo di vivere e con il nostro ordinamento e con i suoi valori".

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