Milano, 17 gennaio 2017 - 22:32

L’età del rancore: litigi, insulti, ululati, risse e aggressioni fisiche

Da Riccardo Montolivo che usciva in barella al premier Gentiloni ricoverato, i fischi senza pietà a chi sta male. Una rabbia senza freni nella nostra vita quotidiana

Montolivo a terra. È stato fischiato più volte anche da infortunato (LaPresse) Montolivo a terra. È stato fischiato più volte anche da infortunato (LaPresse)
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Riccardo Montolivo usciva dal campo in barella, e la curva ha fischiato senza pietà il giocatore infortunato, avanguardia degli energumeni che sui social hanno nei giorni successivi augurato le cose più atroci a un ragazzo con il crociato distrutto, una carriera devastata. La vetta della ferocia social però non era stata raggiunta ancora. Ci volevano nei giorni scorsi il malore e l’operazione del premier Paolo Gentiloni per scatenare la follia idiota di chi, dietro un profilo falso, coperto dall’anonimato per non fare brutta figura con i parenti, tifava affinché il presidente del Consiglio avesse la peggio, possibilmente tra tormenti indicibili. È l’età dell’incattivimento, del rancore senza freni, di un’aggressività frustrata e spudorata che si manifesta senza argini. E non si limita alle parole dell’odio cieco e inconsulto. Giorni fa un manipolo di bruti si è presentato in formazione squadraccia all’ospedale di Catania e si è accanito con una spedizione punitiva su un medico che si era limitato a non fornire un nome agli aggressori. Così, pugni, ceffoni, ululati minacciosi: non avevano bisogno dei social network per dare sfogo al loro istinto di sopraffazione. Come quei genitori che si sono azzuffati mentre i loro figli stavano disputando una partita, una gang di teppisti in doppiopetto. Ma succede spesso anche in Italia, con o senza doppiopetto, nei campetti di periferia e in quelli del privilegio sociale. Sempre con una rabbia incontenibile, nuova, contagiosa.

Una rabbia animalesca e barbara

Una rabbia animalesca e barbara che non si limita alle aggressioni verbali sul web, ma si estende alla politica, al sesso, alla medicina. Hanno gridato la loro esultanza per la morte dell’oncologo Umberto Veronesi, perché nei meandri della bufala mediatica circola la voce che il cancro sia una creatura delle case farmaceutiche per guadagnarci su con la complicità dei camici bianchi. Medici insultati, reparti ospedalieri presi d’assalto, con i guru che aizzano, sfruttano i malati disperati e le loro famiglie disposte a tutto pur di sfogare la loro rabbia, il loro rancore sfrenato. Ma non è prerogativa di frange lunatiche e squilibrate. Basta ricordare in che clima di intolleranza verbale, di aggressività inconsulta, si sia svolta nei mesi scorsi la campagna per il referendum del 4 dicembre. Le campagne elettorali sono sempre dure, spietate, giocano sulla contrapposizione assoluta. Ma è difficile trovare precedenti di un confronto in cui gli avversari, con reciprocità assoluta e paritaria, siano stati vicendevolmente bollati con epiteti di cui «idiota», «imbecille», «scemo», «fesso», «decerebrato», «mentecatto» sono quelli meno cruenti. E ci è andata bene. Negli Stati Uniti, come ha ricordato magnificamente Meryl Streep, l’allora candidato alla Casa Bianca Donald Trump ha pubblicamente preso in giro un disabile. Ma, per dimostrare l’assoluta trasversalità del rancore aggressivo, bisogna anche ricordare Robert De Niro che ha minacciato Trump di prenderlo a pugni (ha minacciato anche di lasciare gli Usa in caso di vittoria trumpiana, ma era solo una guasconata) e trasudavano anche un odio assoluto le minacce con cui è stato bersagliato preventivamente Andrea Bocelli se si fosse azzardato a cantare nella cerimonia di insediamento di Trump.

Un rancore che non conosce limiti

Un rancore che non conosce limiti. Nelle barricate con cui gli abitanti di qualche cittadina del Nord Italia vogliono cacciare a randellate i «negri» e gli immigrati nemmeno si sforzano di non assomigliare a qualche lugubre cerimonia dei Ku Klux Klan: torce nella notte, fiamme minacciose, linguaggio sboccato, simbologia vagamente nazi. Magari molti di loro votavano persino a sinistra (quindi per partiti tutt’altro che ostili ai flussi migratori), ma la rabbia e il rancore li ha fatti deragliare. È saltato il tappo. È finita l’era dell’inibizione. I corpi intermedi, partiti, sindacati, associazioni sportive, gruppi professionali, aggregazioni parrocchiali, centri culturali non incanalano più il malessere. La mediazione ha perso ogni credibilità, e l’immediatezza psicologica del grido, della scazzottata, dell’aggressione fisica e verbale possono dilagare senza un contenimento sociale. Si è più soli e più feroci. O forse la ferocia diffusa ha troppi palcoscenici per esibirsi, e troppo poche compensazioni per decantare, autocontrollarsi.

Rancore sdoganato

Non è che la quantità di rancore sia aumentata rispetto al passato. È che il rancore è stato sdoganato. Quando i più famosi rapper italiani si inseguono con gli insulti più smodati, si assiste a uno spettacolo di wrestling verbale che però può dare addirittura un brivido di modernità. E anche i giudici dei talent televisivi che si beccano e si scudisciano sono lo specchio del comportamento sociale quotidiano di milioni di anonimi rancorosi. In fondo il primo partito italiano è nato da un «Vaffa day». Nella vita sociale diffusa è un «Vaffa» tutti i giorni. Per strada ci si insulta senza remore. Nei social l’insulto contro il personaggio famoso da linciare è un’abitudine che nella satira Maurizio Crozza ha già immortalato con il personaggio di «Napalm 51». Il povero Gianni Morandi tempo fa ha postato su Facebook una foto in cui usciva la domenica da un supermercato con i sacchetti della spesa. Morandi voleva trasmettere un’immagine di domestica normalità e invece è stato travolto da un rullo di commenti in cui si insultava lo sfruttatore dei lavoratori che contribuiva a tenere aperti i supermercati la domenica. E l’autocritica di Guido Barilla che per evitare una campagna di boicottaggio feroce dei suoi prodotti ha dovuto sottostare al rito umiliante dell’autodafè per una sua improvvida dichiarazione sulla famiglia cosiddetta «tradizionale»? Niente in confronto all’orgia di rancore razzista, omofobo, sessista che ammorba il web, dove le appartenenze politiche non contano più e la donna Laura Boldrini di sinistra viene massacrata come la donna Mara Carfagna di destra. Un bullismo di massa, risentito, feroce, disinibito, senza freni. E senza distinzioni culturali e sociali. Un rancore interclassista e contagioso. Con le curve che fischiano chi sta male.

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