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Buongiorno e ben [ri]trovati in questa prima Domenica d'estate. Si respira un'asfissiante aria di odio fatta di beceri egoismi e rigurgiti verbali. Un clima di pervicace insistenza su contrapposizioni e conflitti che speravamo di aver risolto da tempo e che ora ritornano prepotentemente alla ribalta con tutta la loro forza distruttiva. Per questo nell'edizione di questa settimana vi proponiamo di investire una ventina di minuti del vostro tempo per vedere/ascoltare il TED talk di Valarie Kaur, che tra le altre cose è project leader del Revolutionary Love Project alla University of Southern California, su "3 lessons of revolutionary love in a time of rage" [3 lezioni di amore rivoluzionario in una fase di odio]. Nel talk la Kaur, appunto, identifica tre momenti di amore. Il primo è che per amare gli altri, non bisogna vedere estranei. Possiamo allenare gli occhi a guardare gli estranei per strada, sulla metropolitana, alla TV, e naturalmente online, e dire nella nostra mente «Fratello, sorella, zia, zio». E quando diciamo questo, quello che stiamo dicendo è «Tu sei una parte di me che ancora non conosco, scelgo di chiederti di te, ascolterò le tue storie e raccoglierò una spada per difenderti quando sarai in pericolo». Inoltre, sempre sul tema, se vi fosse sfuggito, consigliamo caldamente la lettura del libro dell'amico Bruno Mastroianni, laureato in filosofia, giornalista, autore e social media manager, "La disputa felice". Testo che ad esattamente un anno dall'uscita resta di assoluta attualità. Per completare, per quanto possibile, l'invito alla speranza, l'infografica sottostante riassume il volume delle conversazioni sui social, negli ultimi 13 mesi, relativamente al termine "amore", e la word cloud dei temi associati. In questa Domenica, prendetevi, prendiamoci, almeno, una boccata di ossigeno. Ce n'è un gran bisogno. 

Confessioni [e frustrazioni] di un social media manager di provincia - Su "La Provincia Pavese" [gruppo GEDI] di qualche giorno fa è comparso un articolo che ha attirato la nostra attenzione pur non avendo complessivamente particolare interesse per quanto avviene in quell'area geografica del nostro Paese. Infatti, nell'articolo "La Provincia Pavese e i social: storia d'amore e [molto] odio" chi gestisce operativamente i social di questa testata locale si lascia andare ad uno sfogo sulle frustrazioni del proprio lavoro che si conclude con «La giornata del social media manager, peraltro, non finisce dopo aver dato la caccia alla feccia dell'umanità. Ok, basta brutte notizie, basta migranti respinti, basta francesi che si incazzano. Postiamo, sul far della sera, il video più innocuo che ci sia. I bambini del Grest di Mede dalla piazza del paese liberano centinaia di palloncini colorati. Il social media manager, con il monitor che ancora cola di letame, si sorprende a osservare sognante i puntini che salgono in cielo tra applausi e urla giocose. Pochi secondi e ding!, arriva il primo commento ([che resterà l'unico]. Scrive Alessandro: "Ma i palloncini sono di plastica? Quindi poi ricadranno al suolo inquinando ovunque, no?". Ecco, uffa, rimettiamoci a contare. Uno, due, tre... Perchè questo è Facebook, caro il mio social media manager, sì, è Facebook, e tu non puoi farci niente. Niente». L'esperienza del nostro Pier Luca Santoro a "La Stampa" [di]mostra che non è assolutamente vero che non ci si può fare niente, anzi. Certo, ci vuole sacrificio e impegno. Una costanza che la cattiva prassi in voga nelle redazioni del nostro Paese di affidare i social a chi già svolge un altro mestiere, il giornalista, che potenzialmente rende molto probabile che si finisca per fare male almeno uno dei due mestieri, se non tutti e due. Del come fare invece abbiamo già avuto modo di parlare più volte, ma è chiaro che finché si considereranno, di fatto, i social come una discarica di link da cui solamente dragare traffico [domani su DataMediaHub i dati al riguardo] resterà la frustrazione della quotidianità. L'amico, e attuale social media editor de La Stampa, Bruno Ruffilli, dimostra che si può fare di più, e meglio, volendo naturalmente. 

L'Industria 4.0 italiana vale 2.4 mld di euro -  Il mercato dei progetti di Industria 4.0 in Italia nel 2017 - tra soluzioni IT, componenti tecnologiche abilitanti su asset produttivi tradizionali e servizi collegati - raggiunge un valore compreso fra 2.3 e 2.4 miliardi di euro, di cui l’84% realizzato verso imprese italiane e il resto come export, mostrando una crescita del 30% rispetto allo scorso anno che, letta in una prospettiva pluriennale, sancisce il quasi raddoppio del mercato in soli tre anni. Ai progetti 4.0 si somma un indotto di circa 400 milioni di euro in progetti “tradizionali” di innovazione digitale. Aumenta la conoscenza di Industria 4.0: solo il 2.5% delle imprese non sa cosa sia, il 55% ha già realizzato soluzioni 4.0. Mediamente ogni impresa ha già adottato 3.7 applicazioni, soprattutto IoT e Analytics. Su un campione di 236 imprese, il 92% conosce le misure del Piano Nazionale Industria 4.0, metà dichiara di aver usufruito di iper e super ammortamento, una su quattro di aver investito più di 3 milioni di euro. Circa il 30% delle aziende si sente pronto per affrontare l’Industria 4.0, il 24% intende colmare il divario attraverso la formazione del personale. Sei su dieci useranno il credito di imposta per la formazione 4.0. Sono alcuni dei risultati della ricerca dell'Osservatorio Industria 4.0 della School of Management del Politecnico di Milano, presentata questa settimana al convegno “Industria 4.0: Produrre, Migliorare, Innovare”. Insomma, ancora una volta, emerge come ci sia un gran bisogno di fare cultura. Un tema al quale abbiamo iniziato a lavorare concretamente su cui non mancheremo di aggiornarvi, annunciando iniziative concrete entro al fine dell'estate. Come si suol dire in questi casi, stay tuned!

I big data sono molto più oggettivi. Alla ricerca in scienze sociali offrono tutto un nuovo orizzonte - Il nostro modo di pensare cambia durante la giornata, seguendo cicli di 24 ore che ci portano ad essere Dottor Jekyll, ovvero razionali e analitici, di giorno, con un picco prima delle 10 del mattino, e Mr Hyde, ovvero meno razionali, più viscerali e più disordinati, anche nell’esposizione, quando è buio. Lo mostra uno studio che ha analizzato sette miliardi di parole usate in 800 milioni di tweet in un periodo di quattro anni. La domanda di fronte a quanto emerge dallo studio è se a scandire i tempi dei cicli emotivi rivelati dai tweet siano fattori del tutto esterni – ad esempio se in certe ore si è più lucidi solo perché ci si trova fisicamente in ufficio – oppure fattori interiori, come i ritmi circadiani e gli ormoni. «Anche se in questo studio non l’abbiamo dimostrato, il sospetto che ci sia un ruolo dei cicli circadiani c’è: i cicli che abbiamo visto nel linguaggio dei tweet assomigliano a quelli di ormoni conosciuti» spiega Cristianini, docente all’Intelligent System Laboratory dell’Università di Bristol e coautore dello studio. «Ad esempio il grafico del linguaggio analitico-razionale tipico del mattino ha un andamento molto simile a quello dell’ormone cortisolo, che sale al mattino alle 7 e poi scende lungo la giornata marcando lo stress e seguendo il nostro orologio interno». Sebbene il verdetto dello studio si fondi su un numero enorme di dati, esistono dei limiti di cui tenere conto, come il fatto che Twitter è pur sempre un’espressione in pubblico e quindi non siamo del tutto liberi di scrivere ciò che ci pare. «Giusto, però bisogna considerare questo: fino a ieri questo tipo di studi si facevano basandosi sull’autoreporting, ovvero si chiedeva alle persone: “Ieri alle 12, alle 15, alle 17, come ti sentivi? A cosa pensavi?”. Ed è difficile che le persone si ricordino puntualmente degli stati d’animo che si sono susseguiti nella giornata» risponde Cristianini. «I big data sono molto più oggettivi. Alla ricerca in scienze sociali offrono tutto un nuovo orizzonte». Se a questo punto, legittimamente, vi siete fatti l'idea che i sondaggi non servano più a nulla, leggete qui. Per quanto ci riguarda crediamo che  i risultati migliori, in termini di affidabilità/veridicità dei dati, si ottengono dall'utilizzo di entrambe le pratiche, dall'uso incrociato di ricerche di mercato ad hoc e di social listening altrettanto ad hoc

Se ve li siete persi - Il recap degli articoli pubblicati su DataMediaHub questa settimana, se ve li siete persi. Abbiamo aperto la settimana delle "salvinate", che è ormai evidente che facciano parte di una precisa strategia, di breve periodo, di comunicazione, pubblicando Lunedì proprio un'analisi su lo spazio mediatico, nei telegiornali e sui social, dei principali partiti politici. Per quanto riguarda i risultati relativi ai telegiornali, non mancano le sorprese, e, naturalmente, alcune conferme. abbiamo proseguito la settimana Martedì con la sintesi di un rapporto di Parse.ly su otto miliardi di pagine viste relativamente ad un milione di articoli tra Aprile e Maggio di quest'anno con i trend  relativi a Facebook, Google, e altre piattaforme social, per 23 categorie tematiche, da cui emerge chiaramente il fallimento di Instant Articles, e di Facebook in generale, per le news. Mercoledì è stata la volta di un tema "caldo", ed infatti l'articolo ha ottenuto grande successo ed alimentato numerosi conversazioni al riguardo tra gli addetti ai lavori, descrivendo con dovizia di particolari come funziona l'influencer marketing de noantriGiovedì, il nostro Lelio Simi, ha realizzato un'analisi su qual è il valore del settore media in Italia, e come si è “evoluto” in questi ultimi dieci anni. Vi anticipiamo solamente che la capitalizzazione in borsa dei "top10" gruppi del nostro Paese nel decennio si è ridotta del 45%. Tirate voi le conclusioni. Infine, Venerdì, come di consueto, "Post-it", appunti e spunti su media e comunicazione,  in cui abbiamo trattato di:  Gli italiani e l’innovazione / Link tax / L’elemento umano al centro di una customer experience vincente / Siamo, finalmente, pronti per un giornalismo collaborativo? / Tra tre anni l’app economy varrà 6.3 trilioni di dollari / Markets are conversations. Enjoy!!! 


I video più visti su Youtube dal 2005 a oggi - Dieci mesi dopo il lancio, nel 2005, il video più visualizzato era una pubblicità della Nike con Ronaldinho protagonista, “Ronaldinho Touch of Gold“. Già un anno dopo, alla fine del 2006, il video più visto era “Evolution of Dance”, caricato da un utente comune. Un fatto che inaugurò il periodo in cui i video virali creati da privati riuscirono a entrare nella classifica dei più visualizzati. Nel 2007, l’anno in cui arrivano i banner e le brevi pubblicità prima dei video, “Evolution of Dance” era ancora il video più guardato. Il 2008 segna l’emergere del problema della manipolazione. “Panda Disculpa los Malos Pensamientos”, “Il peggior video di YouTube di tutti i tempi” e “XXX Porn XXX” sono tutti video che usarono view bot per aumentare il loro numero di visualizzazioni e, per estensione, la loro prevalenza sul sito. Dopo un breve periodo in cui “Charlie bit my finger” [due fratellini, uno morde il dito dell’altro] ha dominato le classifiche, è stato “Baby” di Justin Bieber il video più visto, mantenendosi al primo posto dal 2010 al 2012, finché, nel 2013, “Gangnam Style” di PSY prende il suo posto e se lo tiene ben stretto per 3 anni, fino al 2016. Nel 2017 al top troviamo “See You Again” di Wiz Khalifa. Nel 2018 la situazione è ancora la stessa: «la classifica», scrive Caroline Haskins su The Outline, «è completamente dominata da video musicali, curati da etichette discografiche milionarie che possono permettersi produzione, partneships e pubblicità». Eppure, nel 2018, è stato “Despacito” di Luis Fonsi il video più visto dell’anno. Il brano tormentone dell’estate scorsa è riuscito a superare in classifica le proposte di “brand” musicali molto più conosciuti, come il sopracitato Justin Bieber, Katy Perry, Ed Sheeran e Taylor Swift. L'elenco dei video più visti su Youtube dal 2005 fino a oggi, illustra come le politiche economiche [relative a pubblicità, bot di visualizzazioni, partnership eccetera] abbiano determinato l’evoluzione dei contenuti di successo della piattaforma.
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