Il quotidiano britannico Independent non uscirà più in edicola. Da marzo il giornale sarà disponibile solo online. L’editore Evgeny Lebedev, figlio del magnate russo Alexander, che sei anni fa aveva acquistato la testata per una sterlina, per poi investirvi 60 milioni, ha affermato che «il mutamento è guidato dai lettori». È l’ultimo episodio di un periodo di trasformazione del settore dell’informazione - solo in parte determinato dal digitale - ancora lontano da nuovi equilibri. Tra le proposte per assicurare sostenibilità economica ai giornali c’è quella dell’economista francese Julia Cagé, 32 anni, professore a Sciences Po e moglie di un altro economista, Thomas Piketty. Secondo Cagé l’unica strada per garantire il futuro dell’informazione di qualità è costruire per i media un modello economico di associazione nonprofit. Un sistema simile a quello delle grandi università, con un forte intervento pubblico. Su questo ha scritto un libro, Salvare i media, che esce in Italia per Bompiani. Una posizione schierata, che non considera a pieno le conseguenze di un passaggio dal passato, in cui la risorsa scarsa era l’informazione, a oggi, in cui a latitare è l’attenzione dei lettori. Ma comunque originale e utile alla discussione.

Secondo lei, prim’ancora che una crisi economica, quella dei media è una crisi di fiducia. Perché?

«Esistono entrambe, ma quella di fiducia accentua quella economica. I cittadini non credono più ai giornali, di conseguenza li comprano meno. Stando ai sondaggi in Francia, negli Stati Uniti o in Italia meno del 25% delle persone crede ai media. Con meno lettori c’è meno pubblicità, il che spinge le testate a tagliare i costi, ridurre le redazioni, in definitiva a offrire prodotti più poveri. È un circolo vizioso».

Come possiamo misurare la qualità del giornalismo?

«È una sfida, possiamo usare diversi strumenti. Uno è il numero di giornalisti che lavorano per la testata. Contare il numero di pagine di notizie, o studiare il cambio nella misura dei caratteri, l’aumento degli spazi bianchi, sono altre vie che forniscono una misura quantitativa della qualità. Il miglior modo sarebbe valutare il tasso di apprendimento delle persone nel leggere, ma è difficile. Con il digitale, tuttavia, ho sviluppato nuovi strumenti di misura con alcuni colleghi. Studio chi sono i fornitori di notizie esclusive, o la propensione a pubblicare online prima degli altri».

A suo parere pensare di sostenere i modelli economici dei media attraverso la pubblicità è un’illusione. Perché?

«Se guardiamo all’evoluzione di lungo periodo, come faccio nel libro, capiamo che i ricavi da pubblicità sono destinati a ridursi. In Italia, ad esempio, gli investimenti in pubblicità come percentuale del prodotto interno lordo si sono ridotti a partire dal 2000, come negli Stati Uniti. E negli Usa non hanno mai raggiunto di nuovo i livelli di picco del 1987. Ciò dipende dal fatto che l’offerta di spazi è cresciuta più rapidamente della domanda, principalmente - ma non solo - a causa dell’avvento di Internet. E la quota di pubblicità intercettata dai media scende».

Alcune testate sono pubblicate da fondazioni, che non hanno la pressione economica delle aziende tradizionali. Anch’esse tuttavia secondo lei pongono un problema di governance.

«Le fondazioni hanno alcuni importanti vantaggi, tra i quali la stabilità e il nonprofit, visto che gli utili devono essere reinvestiti. Ma pongono un problema: i donatori tendono a intervenire nella gestione quotidiana, mantengono diritto di voto e lo statuto consente loro di avere tutti i poteri. Il mio modello è una via di mezzo tra fondazione e società per azioni, e risolve la questione della relazione tra risorse finanziarie e potere decisionale».

Nel modello gli azionisti non hanno un potere proporzionale al loro investimento. Ma come potrebbe mai funzionare?

«Il modello che ho chiamato Organizzazione media nonprofit (Nmo) è ibrido. È ispirato in parte al sistema delle fondazioni utilizzato da molte università, che combinano attività commerciali con altre che non lo sono. Ma c’è dell’altro. La Nmo è nonprofit, non distribuisce dividendi, gli azionisti non possono recuperare il loro investimento. Chiunque può donare, e le donazioni sono deducibili dalle tasse. In secondo luogo nella Nmo alcuni poteri addizionali sono garantiti ai piccoli finanziatori, che partecipano alla gestione. Oltre una certa soglia di azioni, i diritti di voto non crescono proporzionalmente. Per esempio, gli investimenti al di sopra del 10% del capitale portano a chi li fa solo un terzo di voto per azione. Per converso i piccoli, che contribuiscono per meno del 10%, hanno un aumento del loro potere di voto».

Ma allora che interesse hanno i grandi a investire?

«Un’ottimista risponderebbe: lo fanno per dimostrare la purezza delle loro intenzioni. Una risposta più realistica è che godrebbero di benefici fiscali. I benefici in effetti compenserebbero la diminuzione dei diritti di voto».

Nel libro si legge che la concorrenza non è una soluzione e che i proprietari privati potrebbero condizionare la libertà dei media. Ma un sistema gestito dallo Stato e basato su esenzioni e privilegi fiscali non pone problemi più gravi in termini di libertà?

«Il settore dei media, caratterizzato da alti costi fissi e da costi marginali vicini allo zero, può sostenere solo un limitato numero di attori. Ma è ovvio che la concorrenza garantisce pluralismo di idee e libertà. La concentrazione non è una soluzione. Il problema viene dagli editori che hanno la maggior parte dei ricavi da altre attività, come è accaduto in Italia e come ora avviene anche in Francia. Ciò influenza l’indipendenza dei giornalisti. Il sistema che propongo è basato su privilegi fiscali, questo è vero. Ma l’intervento dello Stato è neutrale. Tutti i media sono trattati nello stesso modo. Non ci sono rischi per la libertà».

Tra le testate gestite da fondazioni, nel libro è menzionato il Guardian, che tuttavia non è mai riuscito ad avere profitti stabili in 195 anni. Come si può essere liberi se si è economicamente deboli?

«Il Guardian non fa profitti, ma ciò non c’entra con il fatto che sia gestito da una fondazione. Secondo me non ha utili perché ha scelto di dare le notizie gratis online, invece di introdurre un sistema a pagamento. Il profitto è importante, in particolare per le testate indipendenti è un modo per proteggersi da azionisti esterni che potrebbero cercare di acquisirne quote per sostenere altri interessi economici. La pubblicità è un’illusione. Bisogna che i giornali si facciano pagare anche online».

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