Milano

Franco Cerri: "Novant'anni a mollo nel jazz. Dalle orchestrine alle star passando per i Caroselli"

A segnare la carriera l'incontro con Kramer e la collaborazione con famose band e grandi solisti. Venerdì una festa concerto al Dal Verme

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VENERDÌ - ingresso libero, posti in rapidissimo esaurimento – la festa concerto al teatro Dal Verme. Venerdì saranno i 90 anni di Franco Cerri, il jazz e una chitarra, storia monumentale tra Milano e il mondo intero, percorsa nei decenni appresso a nomi pazzeschi della storia musicale.

Cerri è alto, dritto come un fuso, sorridente e gentile come non si usa più, sente il rumore flebile della chiave nella toppa molto prima del suo interlocutore, inizia discorsi pieni di nomi che mettono i brividi.

POI magari ne dimentica qualcuno e dice "Scriva che purtroppo ormai non ricorda" (in realtà dice di peggio, ma nessuno si permetterebbe mai). Milano zona Fiera, svincolo tra i più eleganti, i vinili stipati nell'armadio è meglio non guardarli per non passare un mese a guardare solo quelli. La festa di venerdì è organizzata dal Comune, gli hanno detto solo di salire sul palco e ci saranno due band con lui, la seconda, con Dado Moroni al pianoforte, è quella che ha suonato in "Barber Shop 2", cd in uscita per l'occasione, uno standard via l'altro, rivisitati per l'ennesima volta e ogni volta ancora più standard. Sulla piccola scrivania plichi di spartiti ("Ogni tanto l'insonnia, sa com'è, mi alzo e aggiusto qualcosa, canticchio, poi torno a letto e canticchio ancora, più contento"). L'inizio lo ha raccontato molte volte, ma quei cortili di Milano dell'immediato dopoguerra dove ci si ritrovava per suonare e ballare si fa fatica davvero a immaginarli. "Il periodo era quello, la guerra non c'era più, i condomini qui attorno erano di cinque piani al massimo e davano tutti sullo spazio interno. Suonavo la chitarra da poco, un regalo di mio padre dopo due anni a insistere. Poi finalmente lo strumento, in una grossa busta di carta e la frase: per questa ce l'abbiamo fatta, ma non ti sognare un maestro, costa troppo. Arrangiati".

E lei?
"Per fortuna qualche amico che ne sapeva già: suona la corda più grossa, quello è il Mi. Scendi sulle altre, e ho imparato la sequenza. Ero anche andato in uno dei pochi negozi di dischi ma non c'era nessun manuale per imparare. Poi una sera, in uno di quei cortili passa Gorni Kramer. Per noi che lo ascoltavamo alla radio era un dio, forse neppure esisteva. Si siede con la fisarmonica e inizia, io a fianco con la chitarra, non ci credevo, la gente che ballava, due ore così. Torno tardissimo a casa, i miei dormono già, o entro in camera e urlo quasi: Papà, ho suonato con Gorni Kramer!"

E lui?
"Va a dormire, ché è tardi".

Sano pragmatismo.
"Dopo qualche giorno sono in Galleria del Corso dove si riunivano i musicisti. Passa Kramer e mi vede: su andiamo. E finisce in una sala concerto, quella volta vennero i miei a sbirciare, mia madre si commosse. El me fioeu col Kramer".

C'era un sacco di jazz, all'epoca.
"La radio, anche la prima tv, programmi appositi. E c'era il jazz in giro per il mondo, la suggestione di Duke Ellington, le grandi orchestre. Era popolare. Ma se eri un giovane musicista a Milano c'era la fortuna di veder passare da qui i nomi più grossi, e spesso si doveva fare la band per accompagnarli, mi chiamavano spesso".

Il caso Billie Holiday.
"Era una dea. Perfetta. Nel '58 la scritturano allo Smeraldo. Scelta infelice, il pubblico al 90 per cento non la conosceva e in genere lì ascoltava altro. Fischi, buuu, lei in crisi, le foto con le lacrime. Siccome il mondo intero sapeva dei suoi problemi con l'alcol e il resto, la notizia fece il giro, i giornali di New York fecero i titoloni".

Bella figura.
"Le arrivò un telegramma: "Sono con te". Firmato Frank Sinatra. Nel giro decidemmo di organizzare un concerto diciamo riparatore, al Gerolamo, per chi sapeva apprezzarla. Andai a trovarla in camerino, era meravigliosa, accanto a lei un enorme bicchiere di Coca Cola, anche a guardare il contenuto corrispondeva. Poi si alzò e venne a salutarmi, mi baciò sulle guance: diciamo che quello che sentii non era proprio profumo di Coca Cola".

Lady Day. E il concerto riparatore?
"Fu perfetta. E cantò con una sedia davanti, in piedi, stringendo la spalliera. Tutti pensavano: che posa ieratica e affascinante. Io qualche dubbio sul perché non lasciasse la spalliera ce l'avevo".

Inizia a girare il mondo per davvero, in quei tempi, suona al Lincoln Center di NY, ma conosce Django Reinhard, Stephan Grappelli, roba memorabile in giro.
"Con gli anni ho fatto quasi il pieno di incontri con i musicisti. Con i chitarristi si formavano subito gruppi e occasioni per suonare. Una sera suonano a Milano George Benson e Jim Hall, alla fine siamo insieme e mi chiedono: dove andiamo, è tardissimo. E io, siamo vicini a casa mia, se volete... E arrivano, Benson si siede su quel divano, lì dove è seduto lei c'era Jim Hall..."

Mi alzo subito.
"Ci sono tre chitarre e iniziamo a improvvisare. Dopo un po' si apre la porta ed entra mia moglie con una pastasciutta gigante, erano in estasi. Dopo qualche anno c'è George Benson in concerto a Roma, vado a salutarlo alle prove, lui mi vede da lontano fa fermare la musica e urla nel microfono: pastasciutta!".

Poi un giorno lei diventa all'improvviso uno dei volti più popolari d'Italia. E non per il jazz.
"Lavoravo anche ai jingle per i Caroselli. A un certo punto decisero che andavo bene per lo spot e io: voi siete matti. Ma alla fine si fece".

L'uomo in ammollo.
"Era un modo di guadagnare qualcosa in più. Nemmeno tanto, in realtà".

Figuriamoci, con quella popolarità il prezzo poteva farlo lei.
"Ma no, non era mica come oggi. Pagavo l'affitto con molta più facilità, certo. Solo mi imbarazzava, per strada mettevo gli occhiali grossi e appena capivo che qualcuno mi stava venendo incontro perché mi aveva riconosciuto provavo anche a coprirmi il volto...".

Ma la invitavano negli show Rai del sabato sera, quelli da venti milioni di spettatori, e per suonare. Dicevano Franco Cerri e tutti beh, chissà. Poi la vedevano e diventavano tutti matti. Corrado diceva: "quando l'ho vista ho chiesto di far riempire d'acqua lo studio".
"Per alcuni anni ho aperto i concerti così. Salivo e dicevo: prima di cominciare devo rivelarvi una cosa. In quella pubblicità, io non sono davvero nell'acqua... E' un trucco".

Risate, e poi si poteva suonare in pace. "Esatto". A Milano dirige con Enrico Intra i Civici corsi di jazz. Che dicono i giovani?
"Molti vengono dalla Classica, è un percorso storico, in fondo. Molti sono bravissimi. In questi anni abbiamo provato nel nostro piccolo a riparare il grande torto di questo paese, ovvero l'assenza di una vera cultura musicale da insegnare a scuola. Il più grosso rimpianto è quello".

Ma quando passava da New York o viveva per un po' nella culla del jazz non le è mai venuta la tentazione di non tornare?
"Solo perché è America? Guardi, no. E potrei raccontarle di quanti jazzisti americani alla fine scelgono di venire loro a vivere in Europa. Ci sarà un motivo".