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La Crimea di Tolstoj

Arrivato nella Penisola durante il momento più duro della Guerra d’Oriente, lo scrittore nei Racconti di Sebastopoli completa il percorso umano che lo porterà a concepire Guerra e pace.

La Crimea di Puškin
di Tatiana Polomochnykh
Pubblicato il Aggiornato il
[Particolare di <em>Ritratto di Tolstoj</em>, Il’ja Repin 1887. Preso da <a href=http://photo.pixasa.net/show/15362cb6-b7d1-446f-b49c-e5ac47d263aa target=_blank>qui</a>]
[Particolare di Ritratto di Tolstoj, Il’ja Repin 1887. Preso da qui
"Ricredetevi, gente, e per il bene sia materiale sia spirituale vostro e dei vostri fratelli e sorelle, fermatevi, ricredetevi, pensate a ciò che state facendo!

Ricredetevi e comprendete, che i vostri nemici non sono gli inglesi, i francesi, i tedeschi, i russi […] ma che i vostri nemici, gli unici vostri nemici, siete voi stessi, che sostenete con il vostro patriottismo i governi che vi opprimono e causano le vostre disgrazie".

Così nel 1890 scriveva Lev Nikolaevič Tolstoj nel suo saggio utopico Il patriottismo e il governo. E aggiungeva: "Comprendetelo, la vostra vita non potrà minimamente migliorare, se l’Alsazia sarà tedesca o francese".

Né se la Crimea e il Bacino del Doneč saranno russi o ucraini, diremmo oggi. Del resto fu proprio in Crimea che Tolstoj cominciò a elaborare il trauma della guerra trasformandolo in tema letterario.

Arriva nel momento peggiore, trascinato dal destino nell’inferno della Guerra d’Oriente. Non in carrozza, ma a cavallo, da sottotenente della 14° brigata d’artiglieria, giusto in tempo per assistere al cruento sacrificio di consacrazione della Tauride russa. La guerra e il colera immolano 250 mila russi e 60 mila inglesi, francesi e piemontesi. La Russia manda nel calderone di Sebastopoli assediata il suo inviato speciale, futuro apostolo della non resistenza al male, interprete rivoluzionario della parola di Cristo, filosofo del pacifismo, predicatore della pace mondiale.

All’inizio il ventisettenne veterano del Caucaso è incantato dallo spettacolo della guerra. Annota nel diario:

"Sul lungomare il sole già tramontava dietro le batterie inglesi, qua e la si vedeva alzarsi il fumo degli spari e si sentivano degli schioppi […] Che bello! [7 dicembre 1854].

Il continuo fascino del pericolo di osservare i soldati, con i quali vivo, i marinai e l’andamento della guerra sono così piacevoli, che non ho voglia di andarmene da qui, tanto più che ho un grande desiderio di assistere all’assalto se questo avverrà [13 aprile 1855]".

Lev comanda una batteria al terribile quarto bastione, il punto più esposto e micidiale della difesa. Sfidare la morte è forse, per lui, un’esperienza in primo luogo estetica. Ma oltre allo sprezzo del pericolo dimostra capacità di comando e tecnico-professionali: perfeziona la batteria. Malgrado ciò, è sistematicamente ignorato nei riconoscimenti e nelle promozioni. Secondo i ricordi dei suoi commilitoni era infatti insubordinato, sarcastico, scontroso, trascurato nel servizio, unicamente interessato alla letteratura e al gioco d’azzardo. L’anno prima, esasperato dalla vita di guarnigione in uno sperduto villaggio, aveva chiesto il congedo; non potendo ottenerlo per via della guerra, aveva fatto domanda per Sebastopoli.

In Crimea cercava la gloria, quella letteraria. Qualcosa aveva già pubblicato, ma ora voleva ottenere la fama. Animò un gruppetto di ufficiali con le stesse aspirazioni (tra cui Arkady Stolypin, futuro padre del famoso ministro) e insieme stesero una bozza di giornale militare a larga diffusione (al costo di tre rubli). Certo, prevedevano di trattare questioni di arte e scienza militare, ma lo scopo era soprattutto d’infiammare l’esercito di patriottismo e devozione allo zar attraverso biografie, necrologi di caduti, canzoni, bozzetti di vita quotidiana e soprattutto crude descrizioni delle battaglie. Il progetto fu però bocciato dalla cancelleria imperiale.

Allora Tolstoj propose alla prestigiosa rivista letteraria pietroburghese Sovremennik (Il Contemporaneo) un ciclo di novelle. Apparvero così, nel 1855, i suoi tre celebri Racconti di Sebastopoli. Anche queste sono cannonate, stavolta contro i cliché ideologici e letterari. Il bersaglio è la Tauride come dolce “ricordo” del sognato passato. Il primo racconto, Sebastopoli a dicembre 1854, dissacra direttamente il glamour turistico. Il tono è infatti da guida tascabile che si rivolge al lettore in prima persona:

“Ti farò entrare, amico mio, non dalla porta centrale, ma…”; “Se ti descrivo una di queste sale, potrai facilmente immaginare come sono le altre …”; “Passando l’ingresso, vedi alla tua destra …” e simili.

Solo che le visite di Tolstoj non riguardano il paesaggio e i monumenti, ma lo straziante ospedale da campo, l’angoscia che serpeggia per le strade e all’osteria, le macerie e i cadaveri del terribile quarto bastione. Povero turista, in mano a un artista!

Un colpo sfonda pure il canone dei reportage di guerra. Tolstoj lo fa scoppiare con uno shrapnel di comparse che si affacciano per un istante e svaniscono per sempre. Non solo: inserisce nella fredda cronaca osservazioni psicologiche, incastonando frammenti dialettali e popolareschi. Non racconta fatti: crea atmosfere. Il racconto fotografa la fortezza nella pausa imposta a entrambi gli avversari dalla terribile battaglia di Inkerman (5 novembre 1854).

Tolstoj non è un convenzionale pittore di battaglie. Non vuole descrivere la guerra nelle file ordinate, belle e brillanti, con le bandiere che sventolano e i generali che cavalcano, ma quella nella sua reale espressione - nel sangue, nella sofferenza, nella morte. Il valore non sta nell’eccezione eroica ma nel collettivo sacrificio quotidiano, nella pazienza e nella rassegnazione religiosa: qualità russe e ortodosse per antonomasia.

L’acme arriva nella risposta dei soldati all’allocuzione del mitico ammiraglio Kornilov il quale, facendo la rassegna dell’armata, diceva: ”Moriremo, soldati, piuttosto che consegnare  Sebastopoli” - e i russi, incapaci di vaniloquio, rispondevano “Moriremo! Evviva!".

Tolstoj non disegna solo l'esaltazione momentanea. Mostra il ferito, appena amputato, che chiede di tornare al fronte come istruttore; l’ufficiale di marina che “sbadiglia arrotolando papirose di carta gialla”, mentre la morte falcia attorno a lui. Chiama “voce vigliacca” la naturale paura di morire.

Quando scrive il secondo racconto, Sebastopoli a maggio 1855, il primo è già un best-seller. Ora è acclamato dagli astri della letteratura Nikolaj Nekrasov e Ivan Turgenev, elogiato addirittura dal nuovo zar Alessandro II che raccomanda di “proteggere il talentuoso autore” e tradurre il suo racconto in francese. La fama incoraggia ulteriori audacie, sia nella forma che nel contenuto del secondo racconto.

Qui il reportage entra a far parte del genere dell’epopea russa, lo stesso di Guerra e pace. L’autore accusa, interrompe i discorsi, fa severi commenti. Alterna stile telegrafico condito di psicologia e poetare aulico, accompagnando entrambi gli stili con un patetico recitativo che ricorda quello dell’evangelista Matteo nella Passione di Bach. A questi registri di una complessa partitura corrispondono diverse posizioni del punto di osservazione. Quello da predicatore e oratore è all’altezza delle nuvole, per inquadrar meglio il brulichio umano laggiù.

Altre volte il lettore è inserito direttamente nell’anima di questo o quel personaggio, condividendo i suoi sentimenti, anche bassi come codardia, vanità, egoismo, ignoranza. Così conclude Tolstoj: "L’eroe del mio racconto, che io amo con tutta la mia anima, che ho cercato di descrivere qui in tutto il suo splendore e che è sempre stato, e rimane per sempre bello - è la verità".

Il terzo racconto, Sebastopoli ad agosto del 1855, scritto a Pietroburgo già alla fine dello stesso anno, sembra voler approfondire questa visione. Anche qui troviamo una moltitudine di comparse, ma stavolta si profila un vero personaggio: l’aspirante ufficiale Volodja. Un protagonista, finalmente! Ovviamente, però, del tutto diverso da quello che ci saremmo aspettati. L’eroe di Tolstoj è un adorabile bambinone di diciassette anni, tenero come “un bocciolo di rosa che si sta schiudendo”, un sognatore ingenuo e sentimentale. La sua morte in combattimento spezza il cuore, lascia una sensazione di vuoto, di qualcosa d’incomprensibile e irreparabile.

Come tutti i commentatori non mancano di sottolineare, la morte di Volodja a Sebastopoli prefigura quella di Petja Rostov, il fratello di Nataša, in Guerra e Pace. Infatti, come osservava Boris Eichenbaum nel 1928, i tre Racconti di Sebastopoli sono schizzi per Guerra e pace. Qui vengono preparati sia singoli dettagli sia alcuni caratteri e tonalità e perfino l’intreccio del genere militare con quello di famiglia.

Ma i racconti non sono solo la matrice letteraria di Guerra e Pace. Rileggendoli, mentre la Crimea sembra tornata epicentro di una complessa crisi internazionale, ci avvincono soprattutto come il primo esempio dell’antimilitarismo tolstojano. Questo antimilitarismo appare pazientemente elaborato e sofferto dall’autore proprio nel periodo dei combattimenti a Sebastopoli. I racconti documentano infatti un radicale mutamento di prospettiva, avvenuto nei pochi mesi che intercorrono tra il primo e il terzo.

Nel primo racconto la guerra educa: “fa penetrare nell’anima” il sentimento “di virilità” e “di orgoglio”, fa “inchinare di fronte a questa inconscia grandezza e fermezza d’animo”, insegna ad amare la patria. Nel secondo, la guerra ha viceversa un valore anti-educativo: Tolstoj introduce l’episodio raccapricciante in cui il ragazzino - durante una tregua - si avventura a cogliere fiori nella terra di nessuno, disseminata di cadaveri e, vedendone uno decapitato con la mano irrigidita alzata cerca di abbassarla col piede, per poi scappare terrorizzato.

Cambia dal primo al terzo racconto l’atteggiamento verso il nemico. Prima questo viene menzionato solo di sfuggita, ad esempio: “il sole dietro le batterie inglesi”. I soldati russi chiamano i francesi “gl’infedeli”, inventano che in combattimento gridano “Allah! Allah!”. Nel terzo racconto appaiono le figure dei francesi, alcuni dei quali “parlano con l’accento italiano”. Come nemici, Tolstoj preferisce i francesi, perché evocano la vittoria di mezzo secolo prima. Tra non molto la nostalgia per quella vittoria costringerà Tolstoj a scrivere Guerra e pace. Ma come nel romanzo, qui i nemici non compaiono in quanto tali, ma in quanto partner di una tregua: gente comune, gentile, comprensiva e comprensibile, per niente diversa dai russi. Anticipano l’episodio di Guerra e pace in cui un francese disperso viene ammesso al bivacco notturno dei russi e ringrazia del fuoco e del cibo cantando per loro Vive Henri Quatre, l’antica canzone popolare francese.

Cambia all’interno del ciclo narrativo il valore del sacrificio mortale in guerra, elogiato nel primo racconto e azzerato nel terzo con la scena della fine del protagonista: "Qualcosa nel cappotto giaceva supino in quel posto dove prima stava in piedi Volodja, e tutto questo posto era occupato ormai dai francesi che sparavano ai nostri".

Cambia il concetto della guerra stessa: nel primo racconto intesa come una lodevole fatica e un supremo sacrificio, nel terzo solo come un’assurda, ingiustificabile crudeltà: "La terra, diventata friabile dai recenti scoppi, fu ovunque disseminata dai mutilati affusti, che schiacciavano i cadaveri dei russi e dei nemici, i pesanti cannoni in ghisa ammutoliti per  sempre, scagliati nelle fosse con forza terrificante e a metà coperti di terra, le bombe, le palle di cannone, di nuovo cadaveri, le fosse, i pezzi dei tronchi di legno, i resti dei fortini, e di nuovo i silenziosi cadaveri nelle uniformi grigie o blu".

La ripetizione tripla della parola “cadavere” e doppia di “fossa”, “terra”, “cannone” nella stessa frase sta qui a dare l’intonazione epica richiesta dalla scena apocalittica. Eppure, il naturalismo della descrizione doveva colpire lettori non avvezzi alla crudezza. Altro che pacifismo, altro che non-violenza. Anzi, l’effetto è rafforzato dal finto scrupolo dell’autore circa l’inopportunità del parlar franco: "Forse, tutto questo non andava detto. Forse, ciò che ho raccontato, fa parte di una di queste verità maligne, che inconsciamente conservate nell’anima di ciascuno di noi, non vanno mai esternate per non diventare dannose, come la feccia che non va agitata per non guastare il vino".

Qui Lev Nikolaevič vuole scuotere le anime con un esperimento di nichilismo puramente letterario. Sull’esempio di Puškin, gioca col lettore, spaventandolo, come aveva giocato con la morte al quarto bastione e a carte i propri averi, perdendo la casa di Jasnaja Poljana. La strada impervia della sua esistenza terrena, verso l’utopia della pace e dell’amore universale, è appena cominciata.

Eppure, la dissacrazione del patriottismo e del valore militare è già nata nei tre Racconti di Sebastopoli e rappresenta qualcosa di inaudito per la mentalità e per la letteratura russa. Basta confrontarlo con Puškin, che vede la guerra sotto una luce cavalleresca, idealizzante, romantica. Per tutta la vita il poeta conservò rispetto e quasi venerazione per gli eroi della guerra patriottica. Alcuni li conosceva personalmente: Inzov, Raevskij, Orlov, Davydov. Sospirava scherzosamente che non gli era dato di seguirli “nel frenetico galoppo sotto il fuoco e il tuono dei cannoni”. Gli eroi della sua generazione furono figli dei veterani ed erano il fiore della società russa, la parte più liberale e cosciente di essa. La guerra di Crimea rovescia questi valori.

Dal grano dei racconti non germoglia solo l’antimilitarismo. Spuntano infatti anche altri preziosi elementi utopici del pensiero tolstojano, la non-violenza, il pacifismo, la rassegnazione cristiana, collegati tra loro ma non identici. La non-violenza di Tolstoj, sfiorata nel Vangelo nel richiamo di Cristo di porgere l’altra guancia e presente anche in altre religioni e nella filosofia greca, fu aspramente criticata, ad esempio, da Ivan Iljin. E con Tolstoj polemizzò pure un abitante della Crimea, il poeta, l’artista e il filosofo Maximilian Vološin: "Non opponendoci al male, in modo chirurgico separiamo noi stessi dal male e così travisiamo la verità illuminata da Cristo: che siamo sulla terra non per rinnegare il male, ma per convertirlo, santificarlo, salvarlo. Possiamo riuscire a salvare e santificare il male soltanto inglobandolo in noi e all’interno di noi, santificandolo con noi stessi". Tolstoj non capi il senso del male e non riuscì a risolvere il suo mistero.

Contro la pedagogia tolstojana di rassegnazione cristiana al male insorsero pure Čechov e Gorkij, incarnandola rispettivamente nel Dottor Ragin del racconto La corsia N.6 e di Luca nel pezzo teatrale Bassifondi. Solo l’antimilitarismo di Tolstoj non avrebbe mai dovuto essere messo in dubbio. Ma quanto è impossibile contestarlo, altrettanto è scomodo appoggiarlo. Perché, dopo gli “accettabili” Racconti di Sebastopoli e Guerra e pace, mise in questione lo stesso patriottismo, considerandolo come la causa ultima delle guerre.

Tolstoj non distingue tra patriottismo “buono” e “cattivo”. L’augurio del bene al proprio popolo è il seme della discordia, perché la pace e la felicità sono possibili solo a condizione di estendersi alla totalità dei popoli. Nella sua visione, non la religione bensì il patriottismo è l’oppio dei popoli, sfruttato dai governi, visti come cricche e comitati d’affari senza scrupoli, per perseguire unicamente i propri interessi.

Tolstoj voleva aprire gli occhi alla gente stordita e avvelenata dal patriottismo: "Bisogna che gli uomini capiscano che il sentimento patriottico […] sia un sentimento rozzo, dannoso, vergognoso e cattivo, ma soprattutto amorale. È un sentimento rozzo perché proprio solo alle persone che si trovano sul gradino più basso della moralità, le quali aspettano dagli altri popoli esattamente quella violenza che loro stessi sono pronti a operare nei loro confronti; è dannoso perché distrugge le proficue e pacifiche relazioni con altri popoli […], è un sentimento vergognoso perché trasforma la persona non solo in uno schiavo, ma in un gallo da combattimento, in un toro, in un gladiatore, il quale annienta le sue forze e la vita per i scopi non propri ma del suo governo; è un sentimento amorale perché al posto di riconoscersi creatura di Dio, come ci insegna il cristianesimo, o almeno una persona libera guidata dalla propria coscienza, si riconosce il figlio della patria, lo schiavo del proprio governo e compie le azioni contrarie al proprio intelletto e alla propria coscienza".

L’ondata di patriottismo che sommerge oggi la Russia sta inghiottendo le rare voci antimilitariste e antinazionaliste. “La primavera russa”, “l’era del risveglio russo”, “la battaglia per i confini”, “la ricostruzione dello spazio storico”, “il ritorno alle radici” sono le parole d’ordine. Lo storico Andrej Zubov, che ha protestato contro l’annessione della Crimea con le stesse parole di Tolstoj (“Ricredetevi! Pensateci!”) è stato rimosso dall’insegnamento di storia e filosofia all’Università statale di Mosca per le Relazioni Internazionali (Mgimo).

Thomas Mann osservò che finché visse Tolstoj, la Grande guerra non osò scoppiare. Quale grande vita, oggi, soggioga e trattiene la guerra?

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