Architetti… che ne dite delle neuroscienze?

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Esiste un rapporto tra neuroscienze e architettura? Possiamo pensare a una relazione tra le scienze cognitive e un approccio centrato sull’uomo di quello che potremmo definire il “mondo edificato”? La domanda se l’è posta Sarah Williams Goldhagen, storica critica per The New Republic e già lettrice presso la Harvard Graduate School of Design. Il suo libro, Welcome to Your World. How the Built Environment Shapes Our Lives, è sia un esame della scienza che sottende alla cognizione (e della sua rilevanza per l’architettura), sia una lettura polemica nei confronti della superficialità con cui questa relazione viene considerata. In un’intervista rilasciata a Martin Pedersen di Common Edge Collaborative, organizzazione no-profit che si dedica a riconnettere l’architettura con le persone per cui è pensata, l’autrice esplora in maniera più approfondita questo tema, argomentando il profondo impatto di un ambiente antropizzato non solo in termini di pure e semplici costruzioni, ma anche da un punto di vista più ampio, di percezione, sulle vite delle persone. Siamo circondati da architettura – urbana e non – spesso anche molto brutta, eppure è sorprendente quanto questo ci lasci inconsapevoli o disinteressati. In qualche modo esiste una disconnessione, ma quale? La qualità del paesaggio edificato che ci circonda e le scelte politiche che ne condizionano lo sviluppo potrebbero apparentemente essere relegate a considerazioni di carattere economico, ma segnalano anche un’incapacità diffusa di valutare quanto l’ambiente che ci circonda ci influenzi sotto molteplici punti di vista, non ultimo quello psicologico.

Ricerche dimostrano che quando ci abituiamo a qualcosa, che sia un ambiente o un modello qualsiasi, tendiamo a ripeterlo nel tempo nonostante possano esistere alternative che noi stessi definiremmo migliori. Perché? Perché molte delle esperienze che viviamo nel cosiddetto built environment (ambiente antropizzato) sono a livello di non coscienza – che è ben diverso dal considerarle inconsce e quindi, in qualche modo, inaccessibili. Si tratta invece di esperienze cognitive a cui possiamo avere accesso, ma alle quali la maggior parte di noi non bada. Se prendiamo ad esempio proprio l’ambito dell’architettura, ci rendiamo conto che siamo circondati da una quantità di costruzioni di cui abbiamo solo una debole cognizione, salvo rare eccezioni che riguardano un palazzo particolarmente evidente per le sue caratteristiche di stravaganza estetica o di lusso. In realtà non possiamo dire che esista un ambiente edificato di segno neutro: l’ambiente in cui viviamo ci plasma, in positivo o in negativo.

Si tratta di studi per lo più afferenti all’ambito della psicologia ambientale, che esplorano le relazioni tra cognizione e percezione in maniera generale, senza però un focus specifico sull’ambiente antropizzato. Il collegamento prova a tracciarlo proprio Goldhagen, riferendosi a un famoso esperimento reso noto nel 2009 con il titolo di The London Taxi Drivers study, uno studio durato 5 anni che prendeva in esame la categoria dei tassisti londinesi. Per ottenere la licenza di esercizio della professione, i cab drivers sono soliti trascorrere dai 3 ai 4 anni guidando per le vie della città per memorizzare posizione e nomi delle strade e dei principali luoghi di interesse turistico, una conoscenza (la chiamano proprio “The Knowledge”) che fa sì che solo il 50% degli aspiranti tassisti ottenga l’autorizzazione desiderata. Si tratta di un intenso allenamento cerebrale che ne stimola lo sviluppo, soprattutto per quanto riguarda la parte posteriore dell’ippocampo, potenziando da un lato le abilità della memoria a lungo termine e dell’orientamento nello spazio, ma riducendo dall’altro quella parte di attività cerebrali che sono connesse a talenti cognitivi che risiedono nella parte frontale dell’ippocampo stesso. Una scoperta significativa che dimostra la capacità del cervello di modificarsi con l’esercizio e l’apprendimento continuo, la possibilità che queste modifiche avvengano anche in età adulta, nonché l’influenza dell’ambiente esterno su questo processo. Goldhagen sottolinea l’enorme rilevanza di questi risultati per un ragionamento sul tema in questione: utilizzando per muoverci nello spazio parte degli stessi meccanismi neuronali associati allo sviluppo della memoria autobiografica, si capisce come non sia possibile sviluppare una memoria a lungo termine che non contenga elementi del luogo che si abita. In questo modo emerge in maniera più chiara la connessione tra l’architettura e l’ambiente edificato e la formazione delle nostre identità. Un risultato che conferisce all’ambiente un’importanza per molti inaspettata.

In pratica, si tratterebbe di adottare più spesso, ma soprattutto con maggiore consapevolezza delle interferenze e delle influenze in gioco, soluzioni architettoniche che assecondino i modelli neuronali che ci caratterizzano, come ad esempio modelli di co-linearità come quelli suggeriti dallo scienziato Thomas Albright, membro della californiana Accademia delle Neuroscienze per l’Architettura, che non rappresentano un’ideologia del design fine a se stesso, ma che si raccordano con principi cognitivi di cui la gente ha bisogno e che può comprendere per la propria singolare esperienza degli spazi.

Il tema è complesso e ancora per molti versi inesplorato, e ha anche molto a che fare con quella bellezza che, come dalla foto di copertina scattata a Roma qualche anno fa e significativamente situata in un quartiere defilato della capitale, “salverà il mondo”.

Troppo spesso infatti l’opinione comune sottovaluta l’importanza delle bellezza, relegandola a un aspetto accessorio o superfluo: ci rendiamo però conto che essa ricopre tutt’altro che una posizione marginale quando è in grado di influenzare nel quotidiano il nostro benessere fisico e psichico, generando sensazioni ed emozioni positive che influenzano la nostra stessa salute. Sarebbe quindi auspicabile che, in un approccio lungimirante alle nostre città, si assumesse, all’interno delle stesse amministrazioni e istituzioni, uno sguardo attento alla complessità che scelte inerenti l’ambiente antropizzato comportano per il benessere stesso delle persone che ci vivono, valutandone l’impatto non solo da un punto di vista economico o politico, ma anche relazionale e psicologico.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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