La morte è uno spettro quotidiano quando sei una bambina di dodici anni e l’infanzia ti viene strappata via, quando sei costretta ad accettare l’orrore di un matrimonio forzato. Ogni volta che vedi calare il sole, ti chiedi se uscirai viva dalla notte di violenza che ti aspetta inesorabile». Khadija Al-Salami, scrittrice yemenita e prima donna regista nata nel suo Paese, sa di che cosa parla, perché quell’orrore lo ha vissuto sulla sua pelle.
E lo ha descritto in I Am Nojoom, Age 10 And Divorced, il film che ha presentato il mese scorso all’Istituto del Mondo Arabo, a Parigi.
È in effetti basato sulla storia vera della yemenita Nojoom Ali che, a 10 anni appunto, diventò la più giovane divorziata al mondo. Ma Khadija, nata nel 1966 a Sana’a, nel film fa rivivere anche il suo inferno e quello di sua madre, costretta a sposarsi ad appena otto anni con un violento psicotico che la massacrava di botte sotto gli occhi dei figli.
«Mia madre è una donna anziana», mi racconta Khadija, «ma la ferita delle torture che ha subito da bambina per lei è ancora aperta. Le rivive negli incubi notturni, non può dimenticare. E al doloroso ricordo di quello che ha subito si aggiungono i sensi di colpa per non essere riuscita a risparmiare a noi figlie lo stesso destino».
Khadija è stata sfortunata, ma meno sfortunata di sua madre. Aveva «già» 12 anni quando sposò un marito trentenne di cui, fino a una settimana prima, ignorava l’esistenza. «Appena mi diede l’anello, andai a venderlo per comprare una bambola: non ne avevo mai avuta una. E me la portai dietro, nella casa di mio marito. Era l’unico oggetto che mi ricordasse l’infanzia». Siamo sulla terrazza del museo parigino dedicato al mondo arabo e, mentre parla, Khadija si tormenta le mani.
Come è riuscita a divorziare?
«Sono dovuta arrivare sull’orlo del suicidio. E mi sarei ammazzata di certo se mio marito, stanco di quello che considerava “un comportamento inaccettabile”, non mi avesse riportata dalla mia famiglia. Li ha praticamente accusati di averli imbrogliati sulla qualità della merce, come si fa per gli elettrodomestici difettosi».
Per quanto è rimasta con lui?
«Tre settimane, ma interminabili, perché piene di violenza. Quando una bambina non accetta il rapporto sessuale, viene picchiata dal marito con il beneplacito della famiglia, soprattutto della suocera, prima responsabile della scelta del figlio. Sentono le grida disperate, vedono il sangue, a volte assistono senza battere ciglio alla morte, per emorragia o perforazione degli organi interni. Un massacro che avviene sotto gli occhi di tutti. E quando arriva la gravidanza non è mai felice, senza contare che spesso mette a rischio la vita della madre e del bambino».
Che cosa ha subìto? E in che cosa consisteva il suo «comportamento inaccettabile»?
«Negli accordi tra le famiglie, l’uomo promette di aspettare che la sposa accetti di avere rapporti sessuali, almeno fino a quando non arrivano le mestruazioni. Ci sono uomini che stanno ai patti, ma non fu così per mio marito. Quando scendeva la sera, non pensavo che sarei sopravvissuta un’altra notte. E oltre al dolore fisico della violenza, c’era quello per il tradimento della mia famiglia: come potevano avermi abbandonato nelle mani di un simile mostro? Penso che una bambina, in quella situazione, viva un trauma paragonabile all’incesto. Mi rinchiudevo in bagno e sbattevo la testa contro il muro: ero devastata dalle ferite. Ho smesso di mangiare. Avrei smesso anche di bere, pur di lasciarmi morire».
Come ha reagito la sua famiglia, quando suo marito l’ha riportata a casa?
«Malissimo: non mi ritenevano più degna di stare con loro. La nostra è una cultura tribale. Se trasgredisci, vieni messa ai margini della società, con la tua famiglia. Così sono fuggita, ho denunciato le violenze e chiesto il divorzio, che un tribunale ha pronunciato due anni dopo. Nel frattempo ero stata affidata a un’associazione, che mi ha permesso di andare a scuola e mi ha trovato il primo lavoretto, in una Tv locale. Poi ho vinto una borsa di studio e sono partita per gli Stati Uniti. Lì mi sono laureata in comunicazione e cinema, e ho vissuto più di vent’anni a Washington».
E oggi?
«Mi sono appena trasferita a Parigi con mio marito, che ho conosciuto all’università e che fa il veterinario. Ho avuto una vita piacevole, ma non ho voluto figli: troppo ingombranti i ricordi della mia infanzia. Non riesco a guardare un bambino senza pensare a quanto ho sofferto».
Ma che piacere può mai provare un uomo adulto che stupra una ragazzina indifesa?
«Dopo aver a lungo odiato il genere maschile, ho riflettuto. Anche se non se ne parla, tutti i bambini sono vittime, in società come quella yemenita: subiscono maltrattamenti in famiglia, e anche la violenza sessuale è diffusa. Vengono venduti in Arabia Saudita come schiavi. Sono i principi della società che vanno cambiati: quando si pratica la barbarie, si diventa barbari».