Pubblica amministrazione, tra contrattazione e perimetro funzionale

di Luigi Oliveri*

Egregio Titolare,

in effetti, la sentenza della Corte costituzionale 178/2015 appare un’arrampicata sugli specchi di difficile comprensione. La motivazione della sentenza lascia comprendere che è legittimo che il legislatore, in una situazione di particolare emergenza economica, possa attivare politiche appunto economiche tali da incidere su una voce della spesa pubblica di quasi il 20% del totale, al fine di contenerle. La sentenza spiega anche che tali misure possano avere una durata corrispondente al triennio caratterizzante tutti gli strumenti di bilancio e programmazione finanziaria e perfino superiore al triennio, se la contingenza e l’emergenza lo richiedano.

C’è, allora, da chiedersi perché la Consulta da una parte consideri costituzionalmente legittimo disporre blocchi alla contrattazione in situazioni di necessità finanziaria, ma dall’altra parte ritenga, tuttavia, che simili blocchi non possano e non debbano durare oltre una certa misura, pena la violazione della libertà sindacale.

Ma, se la contingenza economica perduri e resti immanente? E’ possibile trarre dall’articolo 39 della Costituzione un limite temporale non superiore al quadriennio o al quinquennio, superato il quale il blocco della contrattazione divenga lesivo della libertà sindacale? Leggendo la norma e in particolare il comma 1 del citato articolo 39 (“L’organizzazione sindacale è libera”) parrebbe proprio di no. E parrebbe anche che un blocco dei contratti con la libertà sindacale oggettivamente abbia poco a che vedere. Detta libertà consiste nell’assenza di ostacoli nel realizzare le attività proprie dell’organizzazione sindacali: il diritto di organizzarsi, di gestire i tesseramenti ed i contributi, di svolgere l’attività di tutela dei lavoratori, di organizzare assemblee, volantinaggi, esercitare i diritti di partecipazione previsti dalle norme.

Certo, tra tali diritti c’è anche quello di negoziare contratti con la parte datoriale. Ma, qui sta il punto. La “libertà sindacale” consiste nel diritto di negoziare o contrattare e, cioè, sollecitare la controparte ad un accordo? Oppure nel diritto a “stipulare”, cioè ad avere comunque un accordo, anche se le condizioni economiche della parte, in questo caso pubblica, non lo consentono?

Spingersi verso la configurazione di un diritto a “stipulare” parrebbe davvero eccessivo e contraddittorio con la stessa sentenza: se, infatti, il datore pubblico, per non ledere la libertà sindacale, fosse comunque tenuto a stipulare contratti, allora l’incostituzionalità del blocco dovrebbe essere retroattiva e non successiva alla pubblicazione della sentenza, come invece la Consulta ha stabilito. Ma, se si tratta di un diritto a contrattare, come lascia capire la parte finale della pronuncia che demanda al legislatore il compito di “dare nuovo impulso all’ordinaria dialettica contrattuale, scegliendo i modi e le forme che meglio ne rispecchino la natura, disgiunta da ogni vincolo di risultato”, allora è ammissibile che si apra la contrattazione ma non si chiuda o che si limiti alla sola parte giuridica, escludendo quella economica o riducendola a misure molto contenute, come l’indennità di vacanza contrattuale. Il che equivale, dunque, a considerare legittimo un blocco sostanziale, ancorché non affermato per legge, della contrattazione.

Infine, una brevissima considerazione sulla possibilità che politiche economiche di riduzione della spesa pubblica contemplino anche la riduzione del numero dei dipendenti pubblici. In effetti, le varie leggi succedutesi in questi anni hanno portato, attraverso modalità anche caotiche di contenimento del turn over, a questo risultato: in meno di dieci anni i dipendenti si sono ridotti da 3,5 a 3,1 milioni. Il problema da analizzare non è la quantità dei dipendenti pubblici o il volume della spesa connessa, per altro in linea (anzi, spesso inferiore, come indica la Corte dei conti) con quelli dei Paesi competitori, bensì quali attività il sistema pubblico intende dismettere. Un terzo quasi dei 3,1 milioni di dipendenti sono, per esempio, insegnanti del comparto scuola: una riduzione drastica del personale pubblico dovrebbe prima rispondere alla domanda se si intende mantenere un sistema di istruzione pubblico o meno.

Solo una volta riconsiderato il quadro delle attività da considerare “pubbliche” e dunque finanziate da tutti col prelievo fiscale è possibile rivedere organizzazione pubblica e numero dei dipendenti pubblici. In assenza di questo, ridurli con formule puramente matematiche significa reiterare tagli lineari di nota scarsa efficienza.

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*Luigi Oliveri, laureato in giurisprudenza, dirigente amministrativo della Provincia di Verona, collaboratore di Italia Oggi, La Voce.info, varie altre riviste giuridiche ed autore di volumi in materia di diritto amministrativo.

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