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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2015 alle ore 08:15.

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E, così, in tre anni sono andati in fumo 10 miliardi di euro di Pil. Per la precisione 9,87 miliardi di euro. Su richiesta del Sole 24 Ore, la Svimez ha adoperato il suo modello econometrico per valutare l’impatto della vicenda Ilva sul sistema industriale del Paese. I numeri lasciano senza fiato. La Svimez ha calibrato il suo modello sull’effettivo utilizzo – nei tre anni di tempo – della dotazione produttiva di quello che, un tempo, è stato l’impianto siderurgico più grande d’Europa. Questa analisi certosina ha tenuto conto dell’andamento reale che ha visto i quattro altoforni del ciclo integrale di Taranto ora – a turno - in piena attività, ora in parziale funzionamento, ora sequestrati dalla magistratura e ora sottoposti a ristrutturazioni. La stima effettuata dal gruppo di lavoro coordinato dall’economista Stefano Prezioso ha tenuto conto anche dei modelli analitici di Ipres e di Remi-Irpet.

Il modello econometrico della Svimez non ha stimato gli effetti soltanto sul Pil italiano. Ha fatto lo stesso anche su altri indicatori. Il risultato appare radicale e duraturo. Prima di tutto per il nostro sistema industriale. Il rallentamento dell’acciaieria ha provocato, fra il 2013 e il 2015, una perdita secca di investimenti fissi lordi pari a 2,19 miliardi di euro. Meno denaro e meno tecnologie sono dunque affluiti nelle vene profonde del nostro paesaggio produttivo. Con un effetto cascata, la propensione all’export della nostra economia si è indebolita. E non di poco: in questi tre anni, a causa dell’affaire Ilva l’export è caduto di 4,45 miliardi di euro. E, naturalmente, è stata stimolata la produzione all’estero, con i concorrenti della società italiana che sono entrati sul nostro mercato come il coltello nel burro: l’import estero è aumentato di 1,78 miliardi.

In questo contesto, l’Ilva ha avuto conseguenze anche sulla società italiana. Secondo il modello econometrico della Svimez, infatti, fra il 2013 e il 2015 la perdita cumulata di consumi delle famiglie – espressione diretta e indiretta della crisi dell’acciaieria – è stata pari a 1,45 miliardi di euro. Questi numeri, stimati dalla Svimez con criteri prudenziali, nella loro cruda dimensione quantitativa non rivelano del tutto la natura pervasiva della destrutturazione che l’Ilva ha sperimentato in questi tre anni. Il problema di alcuni settori, in questo caso la siderurgia, è che la perdita di competenze, collegata a ripetuti traumi, non si ricostruisce con facilità e rapidamente. Dunque, sul medio e lungo periodo vi saranno ancora altre, e più durature, conseguenze. Il tutto è solamente l’inizio. D’ora in poi ci si muove in terra incognita. I perimetri di questa terra incognita saranno definiti – nei prossimi mesi, nei prossimi anni, nei prossimi decenni – dalla miscela composta da un lato dalle conseguenze reali dell’ultimo conflitto fra Procura di Taranto e Governo e dall’altro dal naturale dispiegarsi dell’attuale degenerazione della fisiologia industriale e finanziaria dell’organismo Ilva.

Primo aspetto: il tema del conflitto fra magistratura e impresa. Il gesto compiuto venerdì scorso – i carabinieri inviati dai magistrati di Taranto dentro la fabbrica ad identificare i diciannove operai presenti all’apertura dei sigilli dell’altoforno 2, successiva al decreto del Governo – delinea lo scenario peggiore: il Governo potrebbe pensare alla chiusura dell’altoforno 2, a cui per ragioni di sicurezza e di «funzionamento» industriale dovrebbe seguire quello dell’altoforno 4. Così, l’acciaieria verrebbe di fatto spenta. Resterebbero le macerie industriali. Il problema ambientale ereditato dall’Italsider e dell’Ilva dei Riva diventerebbe irrisolvibile (ricordate Bagnoli? La scala qui è ben maggiore). La questione sociale assumerebbe tinte fosche: bisognerebbe gestire l’uscita dal mondo di lavoro di 11.400 dipendenti diretti dell’Ilva e di 6mila occupati indiretti a Taranto, più quella degli 800 dello stabilimento di Novi Ligure e quella dei 1.400 di Genova. La voragine finanziaria diventerebbe incolmabile.

Anche l’altro scenario – senza indulgere in quello apocalittico – appare non semplice. La struttura guidata da Massimo Rosini, ex capo delle operations di Indesit, ha una cifra non industrialista, ma manageriale. Per esempio, sta lavorando con grande impegno sul circolante e sull’equilibrio aziendale dei conti operativi. Un approccio di razionalità economica, che sarebbe perfetto per una impresa in condizioni di normalità e non di costante eccezionalità.

La destrutturazione, nel rapporto fra industria e mercato, appare però drammatica. E appare la conseguenza di una stratificazione di scelte che si sono susseguite in questi tre anni, iniziati il 26 luglio del 2012 con il sequestro dell’acciaieria e l’arresto dei Riva e dei loro principali collaboratori, in un procedimento basato sull’accusa di disastro ambientale e su 174 persone morte – fra 2005 e 2012 – per l’inquinamento. Regge, per ora, il rapporto della produzione di Novi Ligure con l’automotive. Anche se Taranto ha perso le forniture dello stabilimento Fiat-Chrysler di Melfi, che preferisce ormai approvvigionarsi con i produttori coreani. La chiusura dell’acciaieria 1, essenziale per le lamiere, ha slabbrato le relazioni con i grandi gruppi dell’edilizia e delle infrastrutture. Sono venute meno molte certificazioni, indispensabili per lavorare con i tubi dell’Oil and Gas. C’è, poi, negli stabilimenti – in particolare a Taranto - un problema di organizzazione industriale, con la sedimentazione di nuove competenze provenienti da altri settori – non siderurgici - che le diverse gestioni succedutesi alla guida dell’azienda hanno portato da fuori e con i vuoti che si sono venuti a creare – soprattutto nei reparti più operativi – per il congelamento di professionalità giudicate troppo legate alle vecchie leadership proprietarie (i Riva) e manageriali (l’ex commissario Enrico Bondi).

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