Che cos’è cambiato con l’Oscar?
«Che mi sento un po’ strana».
Perché?
«La gente pensa che io valga più di prima, e io so di essere la stessa di sempre. Poi ricevo centinaia di richieste da parte di organizzazioni che amo e che mi chiedono aiuto, e sono costretta a dire di no. Quindi, per quanto sia grata per il riconoscimento che ho ricevuto, avverto una distorsione nella mia esistenza che non mi piace. Ma sono sicura che cambierà».
Riceve offerte di lavoro più interessanti?
«Sì. Una l’avrei accettata, se non fosse che mia figlia ha 12 anni, e non avrà mai più questa età, e invece di stare su un set voglio passare l’estate con lei.
Anche se si tratta di un film straordinario l’ho rifiutato: la mia vita è più importante di tutto il resto».
LEGGI - Patricia Arquette: «L'ora della parità»
Che fosse uno spirito libero lo sapevo anche prima che Patricia Arquette si togliesse la giacca militare e il fedora di paglia con cui è arrivata nel ristorante di Miami dove ci siamo incontrati. Dopotutto, quando ricevette l’Oscar come attrice non protagonista per Boyhood, fece un appello per la parità di redditi tra uomini e donne che accese un dibattito negli Stati Uniti ancora vivissimo. Non tutti realizzarono quanto autobiografico fosse quel discorso: Arquette, 47 anni, ebbe il suo primo figlio Enzo a venti, e lo tirò su da madre single, dopo la separazione da Paul Rossi. Cresciuta in una comune hippie della Virginia e poi in California, viene da una dinastia di artisti: nonno Cliff era un famoso comico, papà Lewis un attore, la madre Brenda un’artista e scrittrice che fu molto violenta con i figli.
Tutti sono diventati artisti a loro volta: anche i fratelli Richmond e David, e le sorelle Rosanna e Alexis, che prima della transizione da uomo a donna si chiamava Robert.
Quando a inizio carriera i genitori le suggerirono di mettersi l’apparecchio, lei rispose che lasciando i suoi denti com’erano avrebbe interpretato ruoli più realistici. Disse no anche alla richiesta del produttore di Medium, serie di cui è stata protagonista per 7 anni: le aveva chiesto di perdere peso dopo la gravidanza da cui è nata la seconda figlia, la dodicenne Harlow.
Patricia ordina solo un caffè e parliamo delle ragioni per cui ha accettato di essere la testimonial di Marina Rinaldi, il più sofisticato e glamorous brand della moda per donne che una volta si definivano plus size. In passato, altre sue colleghe anche molto meno famose e dotate di molto meno talento di lei hanno rifiutato di farlo, alcune un po’ piccate.
La Arquette invece in due minuti mi fa capire che c’è una linea diretta tra la sua vita, quel discorso agli Oscar e le foto della campagna scattate dal grande Bruce Weber sulla spiaggia davanti al suo studio. Quelle che la mostrano mentre si rotola nella sabbia e si bacia col suo nuovo compagno, il pittore Eric White, di cui parla per la prima volta.
Lei com’era da piccola?
«I miei erano molto progressisti, sono cresciuta senza mai dare importanza al mio aspetto fisico. Una volta mio fratello mi aveva preso in giro, e papà gli disse: “Tua sorella non lo sa ancora, però un giorno sarà bellissima. Ma non sarà solo quello: sarà anche buffa, incazzata, intelligente, ed è importante che nessuno le impedisca di esprimere la sua personalità”. Siamo tutti diversi, ma la moda preme per mostrare un solo tipo di donna, molto giovane e molto bella, sempre molto lontana dalla realtà. È un discorso arretrato: in questo la moda è fuori moda».
Perciò ha accettato di fare questa campagna?
«Non si capisce perché le donne che hanno una taglia diversa debbano comprare cose da uomo, o di bassa qualità: non trovare abiti che ti fanno sentire bella provoca un senso di inferiorità, ti fa andare a un colloquio di lavoro senza la sicurezza che viene dal sentirti a tuo agio in quello che indossi».
LEGGI - Patricia Arquette e l'arte di invecchiare
Hollywood non sembra molto diversa.
«Nel cinema c’è la stessa spinta verso una bellezza poco realistica, verso storie che non c’entrano con la realtà. La madre che ho interpretato in Boyhood nella realtà la conosciamo tutti: è quella che fa fatica a tirare avanti, la cui vita non è patinata, ed è per questo che al cinema non si vede quasi mai. Eppure, quando un regista come Richard Linklater ha il coraggio di metterla in scena, il pubblico risponde. E segue anche con entusiasmo le attrici che sanno far ridere su questo stato di cose arcaico, come Amy Schumer e Tina Fey».
Lei è apparsa con loro e con Julia Louis-Dreyfus nel video Last Fuckable Day, «L’ultimo giorno da scopabile», satira sull’ultimo giorno in cui un’attrice a Hollywood è ancora considerata sexy.
«A Hollywood non è consentito diventare vecchi. O meglio, lo possono fare solo i maschi: infatti la moglie di uno come Clint Eastwood nei film non ha mai la sua età, ma è sempre più giovane almeno di 30 anni. Io invece ho bisogno che mi si dia la possibilità di invecchiare in santa pace».
Lei si sente bella?
«Mi sento a mio agio nel mio corpo. Anche ai tempi di Una vita al massimo, più di vent’anni fa, non pensavo di essere bella quanto le attrici considerate tali. Non ho niente contro la bellezza: essere donne oggetto in certe circostanze è stupendo, è quello che voglio quando sono con il mio partner. Lo vorrò anche a 80 anni, e sono certa che anche allora qualcuno mi troverà bella, come è sempre successo in qualsiasi fase si trovasse il mio corpo. Mi sono sempre sentita sexy ed erotica: il trucco è star bene con se stesse, e trovare il partner giusto».
LEGGI - Taormina Film Fest, il brindisi di Vanity Fair al cinema
Come cambia il sesso dopo una certa età?
«Secondo lei?».
Credo migliori, se non altro perché ti conosci meglio.
«Sono d’accordo. Una volta superata l’insicurezza, tutto è più facile, ma dipende anche dalla persona con cui sei. È bello scoprirsi, confrontarsi, avvicinarsi. E alla fine il sesso è come cashmere: soffice, caldo, elegante».
Sembra felice con il suo nuovo fidanzato.
«Siamo molto felici, sì».
Come vi siete conosciuti?
«Mio fratello mi ha detto che dovevo assolutamente andare a una sua mostra. Ci sono andata e ho comprato un quadro molto particolare, una collaborazione con l’artista Joe Sorren: Eric faceva un pezzo di quadro, poi lo spediva a Joe che continuava. Un’opera d’arte che è anche il frutto di un’amicizia».
E poi?
«Per anni ci siamo scambiati email: era divertente, intelligente, politico. Ma non eravamo mai nella stessa città. Fino a quando è successo, e abbiamo cominciato a uscire, un anno e mezzo fa».
L'intervista completa sul numero 26 di Vanity Fair in edicola da mercoledì 1 luglio 2015.