Basilico folgorato sulla strada per Kabul

Nella città santa di Qom, il barista non li vuole servire. Fuori dalla moschea, sono costretti a mettersi al riparo da una sassaiola di ragazzini. Un poliziotto li aiuta ma poi, cortesemente, fa loro capire che stranieri, occidentali, cristiani, lì non sono graditi.

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Gabriele Basilico, Confine Turchia-Iran, 1970. Da "Basilico, Iran", © 1970 Gabriele Basilico, g.c.

Nel 1970 l’Iran è ancora la Persia dello scià, non ancora la culla dell'integralismo degli ayatollah, ma è sempre un altro pianeta, dove è facile sentirsi alieni, fouri posto, intrusi.

Eppure, anche viceversa: attratti, calamitati, affascinati. L'Iran è un misterioso miraggio d’Oriente per un ragazzo di ventisei anni com’era allora Gabriele Basilico.

Dieci anni prima di Ritratti di fabbriche, il lavoro che lo consacrerà come grande fotografo del paesaggio urbano, Basilico non è più un principiante con la fotocamera, ma non ha ancora scelto la sua strada.

Pensa di fare un reportage e di venderlo a qualche rivista, propositi vaghi che infatti non si realizzeranno, forse solo pretesti per progettare quel viaggio iniziatico verso Oriente che stava nel cuore di tutti i ventenni di quella generazione.

Una Fiat 124 revisionata (che non tradirà e li riporterà a casa), una mappa stradale un po' vaga, tortuosamente tracciata attraverso i Balcani, la Turchia, il mar Nero, una meta incerta e ancora in discussione (Samarcanda? Afghanistan?), tende e materassini di incerto montaggio, alcuni amici tra cui la compagna di una vita, Giovanna Calvenzi.

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Gabriele Basilico, Shiraz, Iran, 1970. Da "Basilico, Iran", © 1970 Gabriele Basilico, g.c.

Che oggi, quarantacinque anni dopo, riapre la scatola dei reperti di quel viaggio, inediti, quasi dimenticati, e li pubblica in un libro di una piccola casa editrice di raffinati libri di viaggio, un libro che sorprenderà gli appassionati del Basilico misuratore di spazi. Ma forse non troppo.

Un viaggio fotografico precedente, nella Scozia non pittoresca della working class, era ancora segnato dallo spirito del reporter sociale e da modelli fotografici forti, Bill Brandt in quel caso.

Negli appunti del viaggio persiano, sì, c’è ancora il fervore ideologico della scoperta “sociale” di un paese “che vive all’ombra delle moschee e, quasi in contraddizione, partecipa e subisce un processo di crescita capitalistica”.

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Gabriele Basilico, Isfahan, Iran, 1970. Da "Basilico, Iran", © 1970 Gabriele Basilico, g.c.

Ma nelle fotografie la “contraddizione” diventa libera apertura alla visione. Un paesaggio non previsto dal pittoresco orientalista aggredisce il givane Gabriele e trasforma le sue convinzioni.

Scrive sul suo taccuino: "Lunghe strade dritte intersecano spazi che per noi hanno dell’incredibile: una dimensione che modifica la nostra sensibilità, dandoci un senso di maggior dilatazione di spazi e di atmosfere".

La griglia interpretativa si apre e si scardina e lascia il posto a un atteggiamento che sarà poi sempre il suo: di ricezione consapevole dello spazio. L’occhio di Basilico non cerca più conferme ma chiede sorprese e stupore, dalle architetture religiose e spontanee, dagli angoli di città riempiti dalle relazioni umane.

Ma soprattutto – e qui c’è già tutto il Basilico che conosciamo – da quegli spazi troppo asciutti e ingenerosi di pittoresco, eccedenti la misura dello sguardo europeo, e dalla dismisura fra orizzonti e figure, fra luce del cielo e della sabbia e scuro dei mantelli e dei veli delle donne.

Febbri, incidenti, incontri, scontri: tutti gli ingredienti di un memorabile viaggio di formazione. Un ritorno con qualche chilo di meno, qualche puzzolente giaccone di montone in più, un chilo di henné poi sequestrato alla dogana, decine di rullini stampati e accantonati: e la certezza di una vocazione.

[Una versione di questo articolo è apparsa su Il Venerdì di Repubblica il 3 aprile 2015]

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8 commenti

  • Ordinato dopo ver letto il post, ricevuto ieri, letto d'un fiato ieri sera.

    Grazie

  • Un articolo bellissimo. Peccato che il vero valore di un artista, emerga spesso solo dopo la sua scomparsa. Grazie per averci reso partecipi di questi importanti primi passi e aspetti meno noti della produzione di quello che può essere considerato un grande fotografo italiano

  • d'accordo con giovanna calvenzi. il suo commento é molto bello. e in questo caso il rapporto tra fotografie, testi e oggetto libro é veramente perfetto. humbdolt é un pezzo importante della editoria fotografica italiana, rischia su progetti veri e profondi, senza mai perdere qualità, o cercare facili consensi.

  • Giovanna Calvenzi 29 aprile 2015 alle 19:03

    Gabriele, è vero, non ha sfogliato questo libretto. E tuttavia ha stampato lui stesso centinaia di foto e come tutti gli amatori ha cambiato carte e formati diverse volte. Poi le ha messe in scatole che le hanno perfettamente conservate. Abbiamo raccontato tante volte il famoso viaggio in Iran ma le foto, dopo un po', sono state completamente dimenticate.Ormai gli interessavano altre cose. E' stata la memoria di Alberto Saibene a rivangare la storia del viaggio e la raffinata professionalità di Giovanna Silva le ha dato una forma che trovo impeccabile. E' un piccolo libro che amo moltissimo perché ha un equilibrio perfetto tra il testo e le immagini, il formato e il tipo di carta. Insomma, mi piace molto.

  • Che bella questa storia... pero' mentre la leggevo mi ha colpito il punto malinconico...

    "...Basilico non è più un principiante con la fotocamera, ma non ha ancora scelto la sua strada.
    Pensa di fare un reportage e di venderlo a qualche rivista, propositi vaghi che infatti non si realizzeranno..."

    il fotografo ci crede, fa un lavoro indubbiamente efficace ma viene ignorato.
    La seconda foto e' splendida e anticipa di piu' di 20 anni la "quinta fatta da un volto sfocato" che spopolera' nel reportage degli anni '90 (Zizola per dirne uno lo ha usato a Iosa e ci ha vinto un paio di WPP).
    La terza ha la rigidita' formale in cui si intravede gia' la passione "sociale" del Basilico piu' maturo.

    Pero' l'assenza di un nome e forse di un'appartenenza non gli consentirono di veder la luce e soprattutto lui, Basilico, non ha potuto sfogliare questo libretto.
    Chissa quanti lavori ci sono nei cassetti che non vedremo mai.... anche se oggi le statistiche ci dicono che siamo sommersi da migliaia di foto al giorno.

  • bel lavoro. la humbdolt é una casa editrice molto interessante, ricordi michele che te l'avevo segnalata in quel commento sul tuo post sull'editoria. ciao marco

  • Sì, se pensi che "paesaggio urbano" sia solo un campo lungo.
    Il Fotocrate

  • “Ritratti di fabbriche” non sono rappresentazioni di paesaggi urbani come sostiene Michele, i soggetti, il titolo lo suggerisce, sono sempre o quasi sempre isolati dal contesto, sono appunto dei ritratti. Il vero soggetto del libro non è la città di Milano che sta dietro ma i bellissimi grafismi di ricorrenti architetture bi-tri-policuspidate. Sarebbero potuti essere “ritratti ambientati” ma la scelta dell’autore è stata quella di concentrarsi sull’aspetto squisitamente compositivo delle facciate e di sistemarle in un perfetto rigore formale di inquadrature sapientemente bilanciate, con la simmetria assiale non si sbaglia mai. Nessuno può negare l’evidenza, in quel lavoro la ricerca estetica è fortissima, la selezione dei soggetti è informata solo dall’ esasperato desiderio del caso particolare e fotogenico. Fare il ritratto di una città è cosa diversa che fare il ritratto delle sue fabbriche.