Che dire di tutti quei sensi di colpa che provano le madri di fronte alla sofferenza di una figlia? Che dire quando si sente dire – come accade spesso, nonostante sia ormai chiaro che non è così, è molto più complicato, dipende, non è detto, non è vero – che è tutta colpa della mamma se una ragazza soffre di anoressia? Mancanza di amore? Mancanza di attenzioni? Mancanza di riconoscimento?
Come ricorda Alessandra Arachi nel suo ultimo romanzo, Non più briciole (Longanesi), alle madri delle anoressiche non è stato risparmiato nulla negli ultimi decenni.
Le si è accusate di tutto e il contrario di tutto: madri-drago, madri-coccodrillo, madri-frigorifero. Come se la sofferenza che si cela dietro quel terribile sintomo dipendesse automaticamente da loro, incapaci di amare, oppure capaci solo di amare male. Non ho detto d’altronde io stessa più volte che dietro l’anoressia c’è sempre e solo una fame di amore e di riconoscimento? Non ho lasciato intendere anche io che ci fosse un problema di non-amore? In realtà, no. Cioè… Che sia un problema di non-amore, è chiaro. Ma che ci sia poi un colpevole o una colpevole per questo non-amore, è tutt’altro che chiaro. Anzi, è senz’altro falso.
Ma facciamo un piccolo passo indietro per spiegare meglio quello che voglio dire. Nel loro corpo emaciato, le anoressiche sfidano la morte, proprio mentre la portano in giro come una medaglia da mostrare; sfidano i desideri negando i bisogni primari del proprio corpo, proprio mentre il desiderio non riesce più ad emergere; sfidano le norme sociali per sentirsi libere, proprio mentre costruiscono da sole un sistema intransigente di leggi che non possono trasgredire.
Dietro tutte queste sfide, però, c’è ben altro che la semplice volontà di rifiutare la femminilità o di rompere il rapporto simbiotico con la madre o di vendicarsi. Dietro, c’è il bisogno disperato di sentirsi accettati e di neutralizzare la paura: la paura di non essere esattamente come gli altri vorrebbero che si fosse; la paura di essere «altro» rispetto a quello che si pensa di «dover essere»; la paura di ammettere che, nonostante si proclami di non dipendere da niente e da nessuno, in realtà si dipenda da tutto e da tutti. Fame di amore e di riconoscimento, quindi! Che non implica mai, però, l’esistenza di un colpevole o di una colpevole. Meno che mai la madre. Che a sua volta ha dovuto molto probabilmente dibattersi con la propria infanzia e i propri problemi. E che si trova all’improvviso schiacciata a terra dall’impotenza e dalla colpa.
Alessandra Arachi, allora, fa benissimo a battersi contro gli stereotipi della «mamma assassina»: «Uno stereotipo che continua ad angustiare la vita delle madre, rese doppiamente vittime da una paradossale congiura scientifico-mediatica». Ma forse non ha del tutto ragione quando poi insiste sulle «basi organiche, probabilmente genetiche» di questo terribile sintomo. Perché l’anoressia è un sintomo, appunto. Che porta allo scoperto quello che fa veramente male dentro. La paura, il vuoto, l’abbandono, la violenza, la collera.
È un modo per proteggersi da tutto ciò che sfugge al controllo. Anche se a forza di proteggersi si rischia di morire. E per imparare a vivere, come racconto in Volevo essere una farfalla, si deve avere il coraggio di dare un senso a tutta questa sofferenza e per ritrovare il bandolo della matassa. Quell’istante preciso in cui qualcosa si è interrotto. Quell’istante di non-amore e di non-riconoscimento. Anche in assenza di colpevoli. Anzi, soprattutto in assenza di colpevoli.