Google controlla il 92% delle ricerche online. Il più grosso concorrente è il residuale Bing di Microsoft, col 2,5%, seguito dall’1,6% di Yahoo. Fra l’altro, Bing proprio quest’anno ha compiuto dieci anni. Questo per il mercato desktop – dove alcune altre fonti, a dire il vero, portano Bing un po’ più in alto, specie in certi mercati come quello italiano – e con le dovute differenze per esempio in Cina (con Baidu al 70%) o in Russia (con Yandex Ru intorno al 53% e Google al 43,3%). Da mobile il dominio di Mountain View è pressoché totale. Un monopolio incontrastato che per giunta negli anni è costato diversi miliardi di dollari di multe a Big G: 8 dalla sola autorità per la concorrenza dell’Unione Europea dal 2017 sui temi più diversi, dalla stessa ricerca allo shopping online fino alla pubblicità.

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In un lungo servizio su Bloomberg Robert Epstein, celebre psicologo, scrittore, scienziato, divulgatore popolarissimo, storico critico di Google e fondatore del Cambridge Center for Behavioral Studies di Concord, in Massachusetts, torna a proporre una ricetta per intervenire nel grosso bubbone dei monopoli hi-tech. Collocandosi per altro in una posizione parzialmente opposta rispetto a chi domanda, come unica formula magica e automaticamente risolutiva, che Facebook e le “mostruose” creature di Mountain View vengano smembrate in diversi pezzi, separate e magari private delle società e dei servizi che hanno acquisito nel tempo. Al contrario, spiega il 66enne esperto, il valore di questi servizi viene paradossalmente proprio dal fatto di essere monoliti di dati.

Nel caso di Google si tratta dell’“index”, cioè della sua “mappa del web”, il database in continua evoluzione dalla nascita del motore di ricerca ad opera di Larry Page e Sergey Brin in grado di tracciare e navigare in pochi secondi gran parte del contenuto dello strato più superficiale di internet, appunto il cosiddetto “surface web”. Al quale, vale la pena ricordarlo, attengono solo pochi miliardi di documenti dell’enorme cassaforte articolata in vari livelli e centinaia di migliaia di documenti e informazioni che è internet nel suo complesso.

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Ebbene, dice Epstein, quel “mammooth and ever growing database” va condiviso. È in quel passaggio, che lo studioso affianca non senza qualche perplessità, va detto, alle infrastrutture di rete vitali come le reti elettriche, telefoniche o idriche negli anni nazionalizzate o costrette alla concorrenza, che si nasconde il segreto per contrastare il monopolio dei titani digitali. Negli Stati Uniti, in particolare, cita il caso storico del cosiddetto “decreto d’accordo” del 1956 in cui la AT&T condivise tutti i suoi brevetti ai concorrenti a un prezzo stabilito dalle authority, ma in cambio ottenne di accedere a quelli altrui, consentendo un raffreddamento della posizione dominante nel mondo dei semiconduttori.

Tramite API aperte, cioè cosiddette application programming interface, procedure standard, protocolli di accesso, librerie software e tutti i dettagli tecnici, Google dovrebbe consentire a chiunque – organizzazioni tradizionali, non-profit, anche singoli individui – di sfruttare la sua imbattibile “mappa del web”. Ciò che al momento fa solo con alcuni partner come l’olandese Startpage, dietro profumato guadagno, dovrebbe invece essere concesso a chiunque: “Se alle più diverse organizzazioni nel mondo fosse dato accesso illimitato all’index di Google, dozzine di varianti di Startpage verrebbero fuori nel giro di pochi mesi – scrive Epstein – in un anno o due potrebbero nascere migliaia di nuove piattaforme di ricerca, ciascuna con punti di forza e debolezza specifici. Molte si rivolgerebbero a nicchie specifiche, altre a target immensi, e parecchie farebbero senz’altro un lavoro migliore di quello che potrebbe mai fare Google in questo momento”.

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Sarebbero siti e motori di ricerca concorrenti a tutti gli effetti con obiettivi e modelli di business diversi, ma anche modi e strumenti di veicolare le informazioni più articolati. Proprio come fa l’industria dei media nel suo complesso. Ciascun utente avrebbe così a disposizione un ricco menu di alternative in cui sarebbe in grado di muoversi per scegliere le fonti che fanno al caso suo, senza doversi affidare a Google e alle sue decisioni. Dal canto suo Big G continuerebbe a cavarsela più che egregiamente, di questo si dice convinto lo psicologo americano, almeno all’inizio. Col passare dei mesi e degli anni dovrebbe invece ingegnarsi per trattenere gli utenti e “continuare a spiarli tramite il suo motore di ricerca”. Uno sforzo che le farebbe bene.

In fondo il mondo dei motori di ricerca non è affatto nato con Google, che ricorda Epstein è stata solo la 21esima piattaforma a emergere. Yahoo!, Lycos, Ask Jeeves, Altavista e così via ne hanno abbondantemente anticipato le mosse. Fondata nel 1998, Google ha iniziato la sua stagione di dominio solo nel 2003, quando pure solo un terzo delle ricerche negli Stati Uniti passava dalle sue pagine. Una ragione valida per pensare che quel mondo possa tornare a democraticizzarsi e arricchirsi di player, condividendo ovviamente il tesoretto dell’“index” di Big G.

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Secondo Esptein questa è la strada più giusta. L’alternativa sarebbe “spaventosa”. Sia che Google rimanesse più o meno così com’è, sia che finisse, come d’altronde accade in Cina, sotto il controllo dei governi. Che a quel punto potrebbero censurare a piacimento il web e ritagliarlo a seconda dei propri obiettivi. Forse Epstein ci va giù troppo duro, quando parla di “democrazia come illusione e autonomia umana compromessa” se questo non accadrà, ma certo un unico snodo della rete nella stragrande maggioranza dei paesi del mondo è davvero poco.

D’altra parte, qualora questa condivisione più o meno forzata avvenisse, dovremmo comunque seguire dei principi per evitare un mondo fatto di centinaia di migliaia di “motorini di ricerca”. Dall’accesso alle API, che andrebbe comunque governato, alla velocità che dovrebbe essere garantita uguale per tutti, ai contenuti, a cui tutti dovrebbero poter contribuire aggiungendo nuove pagine, alla visibilità, alle necessità di rimozione e a quella di tenere traccia dei documenti rimossi fino al pedaggio da pagare: per realtà piccole e con poche richieste dovrebbe essere gratuito, per altre occorrerebbe pagare tariffe nominali stabilite dalle autorità.

“Quando l’index di Google diventerà pubblico le persone non perderanno più troppo tempo dietro ai complottismi. Se i conservatori ritengono che Google li censuri, useranno altre piattaforme di ricerca dove magari potranno ottenere risultati migliori – conclude Epstein – e data la possibilità di questa migrazione di massa, Google la smetterà di giocare a fare Dio trattando gli utenti e le comunità con nuovo rispetto e umiltà”.

L’ultima domanda riguarda chi dovrebbe occuparsi di lanciare un’operazione così ambiziosa. Secondo l’esperto negli Stati Uniti la Federal Trade Commission e il dipartimento di Giustizia hanno “tutti gli strumenti per fare in modo che questo accada”. Ma anche molti altri paesi del mondo, specie quelli dove Google tiene i suoi pachidermici data center, potrebbero “nazionalizzare” il suo index. L’Unione Europea, in particolare, dovrebbe agire per prima, vista la tradizionale posizione critica nei confronti dei giganti statunitensi e in difesa della privacy. Oppure, anche se per ora ci credono in pochi, potrebbe essere la stessa Google a dare il calcio d’inizio per garantirsi un futuro totalmente diverso e sfidando il mondo a competere con la sua piattaforma: “Se i modelli previsionali del gruppo dovessero garantire più denaro, minimizzare i rischi e dare lustro al brand nei prossimi anni, allora Google potrebbe muoversi ben prima che il tetto cada”.

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