Stava tornando a casa dopo avere preso l’ultimo treno. Camminava lungo una strada di Camden, nel nord di Londra. Ione Wells, studentessa all’università di Oxford, 20 anni, rinuncia all’anonimato per raccontare la sua storia. Un ragazzo che le sembrava più giovane di lei (poteva avere circa 17 anni), quella sera l’ha seguita dalla stazione della metropolitana fino alla casa dei suoi genitori e, poco prima che lei riuscisse a entrare, l’ha afferrata per i capelli, le ha sbattuto la testa contro il marciapiede e l’ha aggredita.
La mamma di Ione, Cindy Wells, ha sentito delle grida: «Pensavo fossero le volpi. Ero in dormiveglia. Ma ho capito che ci fosse qualcuno in pericolo quando ho sentito le urla del mio vicino. Mi sono precipitata al piano di sotto per chiamare la polizia, pensando che ci fosse una donna che aveva bisogno di aiuto, ma non potevo immaginare che fosse mia figlia».
Quando ha aperto la porta, ha visto Ione. «Era stata presa a calci, il suo labbro sanguinava, il suo viso era pieno di lividi, ma penso che sia stata molto, molto fortunata a non aver subito lesioni peggiori». La ragazza è riuscita a mettere in fuga il suo aggressore urlando. «Molte persone spesso rimangono paralizzate dalla paura, e lei non l'ha fatto. E per questo sono così grata. E’ pazzesco davvero, era l’una meno dieci, neanche così tardi. Viviamo in una strada residenziale molto abitata».
Un’esperienza traumatica, che ha segnato Ione e la sua famiglia. La ragazza, però, ha deciso di non tacere, e sul «Cherwell», il giornale degli studenti di Oxford, ha voluto pubblicare una «Lettera al mio aggressore».
«Non posso indirizzare a te questa lettera, perché non conosco il tuo nome. So solo che ti sei appena macchiato di una grave violenza sessuale e di una prolungata aggressione. E ho una domanda da farti.
Quando le telecamere di sicurezza ti hanno ripreso mentre mi seguivi nel mio quartiere, quando hai aspettato che fossi da sola per avvicinarti a me, quando mi hai picchiato fino a quando non riuscivo più a respirare, quando hai colpito con il ginocchio il mio viso insanguinato, quando ho dovuto lottare per liberare la bocca dalla stretta della tua mano, per riuscire almeno ad urlare.
Quando mi hai trascinato per i capelli, e quando hai sbattuto la mia testa contro il marciapiede e mi ha detto di smettere di gridare, quando il mio vicino di casa ti ha visto e ti ha urlato contro e tu l’hai guardato negli occhi e hai continuato a prendermi a calci.
Quando mi hai strappato il reggiseno con metà della forza con cui mi hai afferrato il seno, quando non sei riuscito a fare proprio tutto quello che volevi con il mio corpo, perché tutti i miei vicini di casa e la mia famiglia sono usciti fuori, e ti hanno visto...
Non hai mai pensato alle persone della tua vita, ai tuoi cari?
Le persone della mia comunità non si sentono a rischio se tornano a casa dopo il tramonto. Arriveremo con l’ultimo treno e cammineremo lungo le nostre strade da soli, perché non vogliamo accettare l'idea che sia pericoloso farlo... La tua comunità, anche se non la vedi attorno a te tutti i giorni, è qui. E’ ovunque.
Tu hai sottovalutato la mia. O dovrei dire la nostra? Potrei dire qualcosa sulla falsariga di: «Immagina se fosse successo a qualcuno della tua comunità», ma lasciami dire questo, invece: non ci sono confini alla comunità; ci sono solo delle eccezioni, e tu sei unadi quelle».
Guarda, nella gallery in alto, le parole che i violentatori usano quando abusano delle proprie vittime, raccolte nel blog Project Unbreakable