Charles Bukowski era solito dire che l’amore è una nebbia che scompare all’apparire della realtà. Quale realtà però? Quella che racconta nei suoi romanzi e nei suoi racconti fatta per lo più di alcol e di rapporti tempestosi – che era poi la sua vita, il suo tormento e la sua ispirazione – o quella che ti costringe a fare i conti con le difficoltà e le frustrazioni quotidiane e che, però, è l’unica a certificare se si sia o meno in presenza dell’amore?
Prima o poi, se vogliamo parlare dell’amore, dobbiamo metterci d’accordo. O decidiamo che si tratta solo di un’illusione – perché non c’è amore senza idealizzazione e l’idealizzazione viene meno quando si è confrontati alla durezza del reale – oppure, mettendo da parte disfattismi e cinismo, ci dedichiamo a quell’amore che, senza il reale, non esisterebbe nemmeno. Che è poi, almeno per me, l’unico amore possibile. Perché di principi azzurri e di principesse rosa non ne posso più ormai da tempo, e sopporto a malapena chi continua a opporre la bellezza dei sogni alla rudezza dell’esistenza.
Che senso ha dire che l’amore scompare quando ci si rende conto di come stanno veramente le cose? Che senso ha continuare a struggersi per qualcosa di irreale e irrealizzabile? «La cristallizzazione riconosce il proprio oggetto dal turbamento che esso gli ispira», scriveva Stendhal in Dell’amore. Concludendo poi che, all’apparir del vero, la passione si sbriciola e si è travolti dalla delusione. Ma è questo l’amore? Una semplice illusione che nasce e si estingue?
Riprendiamo allora tutto da capo. E proviamo a capovolgere la frase di Bukowski: l’amore è ciò che compare quando scompare la nebbia e appare il reale. Che è poi un modo come un altro per dire che l’amore comincia «dopo». Dopo aver accettato che il suo sguardo non potrà mai contenere l’universo. Dopo aver sentito la nostalgia dell’infanzia e aver capito che è così per tutti. Dopo aver imparato che la vita è fatta di tante piccole cose, alcune belle, alcune brutte. Dopo aver capito che l’ordine delle fiabe si è spezzato per sempre e che è proprio dal disordine dell’esistenza che si deve ripartire.
Il reale, d’altronde, è esattamente questo: istanti di gioia che vorremmo incastonare, prima di vederli scivolare via e annotare sul diario che sarebbe stato assurdo pretendere che la gioia duri più di un attimo, perché nella vita tutto finisce e le cose che ci piacciono di più finiscono prima delle altre; prima di capire che la gioia è gioia proprio perché finisce e che sarebbe assurdo comportarsi come quando eravamo bambini e nella culla non ci volevamo stare perché solo le braccia della mamma ci scaldavano e ci cullavano e ci riempivano e ci contenevano…
Fare i conti con l’amore significa sempre fare i conti col reale. E fare i conti col reale significa capire che non c’è amore senza dissenso e che anche la persona che ci ama di più non potrà mai darci tutto quello che vorremmo. Altrimenti rincorriamo un ideale che non esiste, ci estenuiamo a combattere contro i nostri fantasmi e non capiamo che ciò che più ci irrita negli altri è molto spesso ciò che non accettiamo di noi stessi. E allora finiamo con il perdere anche quello che abbiamo, che è già lì, che è presente. La realtà, appunto. Che è l’unica a poterci dire se quello che chiamiamo amore è veramente amore.