Si può ridurre l’amore a una serie di algoritmi e statistiche? Serve a qualcosa il calcolo delle probabilità quando si parla di relazioni affettive? Per Hannah Fry, che insegna in una delle più prestigiose università britanniche, lo University College London, la matematica può tutto, anche darci la formula dell’amore perfetto. Come spiega la professoressa Fry nel suo ultimo libro, The mathematics of love, l’amore ideale arriva in genere dopo che se ne sono scartati quattro.
Il che vuol dire che il numero cinque è quello buono!
Sarà «lei» o «lui», indipendentemente da qualunque altra considerazione. Dopo quattro «errori» si impara a essere sicuri di sé e a gestire le proprie emozioni, a non soffocare i conflitti, ma anche a non farsi sistematicamente «mettere sotto». Insomma, inutile sperare che il primo amore duri per sempre. Ma inutile anche accumulare relazioni su relazioni. Una è troppo poco, dieci sono troppe, per parafrasare una canzone di Tiziano Ferro. Lo dice la matematica. Quindi è così!
Ma così come? Continuo a chiedermelo frastornata dai numeri e dalle statistiche. Perché ovviamente la dimostrazione della professoressa Fry è complessa, e bisogna concentrarsi bene per capire che è solo dopo aver scartato via il 38 per cento delle nostre storie, che possiamo sperare di incontrare il famoso principe azzurro o la famosa principessa rosa. Ma nonostante tutta la concentrazione, i conti non tornano. Come potrebbe d’altronde essere altrimenti? Che senso ha cercare di fare i conti con l’amore quando i conti, nella vita, non tornano mai?
Finché è questione di ammettere che 1 + 1 = 2 siamo d’accordo tutti. Cioè, quasi tutti. Visto che, come spiega la psicanalisi, per gli psicotici 1 +1 può fare sia 3, sia 4 a seconda delle volte. E anche chi è semplicemente nevrotico, pur ammettendo che il risultato sia 2, vorrebbe tanto che, talvolta, si potesse rispondere 3 o 4. Ma lasciamo perdere la psicanalisi dei numeri e torniamo alla matematica dell’amore. Perché allora non è nemmeno più questione di psicosi o di nevrosi, ma semplicemente di umanità. C’è chi si innamora all’adolescenza e passa tutta la vita con quel «lui» o quella «lei» con cui si sono condivise le prime gioie e i primi dolori.
Ma c’è anche chi quel «lui» o quella «lei» l’incontrano molto più tardi, magari dopo averne vissute tante di storie ed essersi reso conto che nessuno, fino ad allora, era stato capace di riconoscerlo e accettarlo per quello che è. Perché voler a tutti i costi calcolare tutto? Perché cercare la formula matematica capace di aprirci gli occhi sulla complessità della vita?
Eugenio Montale, in una delle sue poesie più belle, scriveva: «Non chiederci la formula che mondi possa aprirti / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo / codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Certo, i versi di Montale sono rivolti a chiunque si illuda di poter trovare verità assolute e definitive. E forse non è questo l’intento della professoressa Fry. Che, dopo anni di ricerche, cerca solo di aiutare la gente a dipanarsi nella giungla delle regole dell’attrazione.
Ma dire che la persona giusta è la quinta, non è forse il modo migliore per impedire a ognuno di noi di lasciarsi sorprendere dall’amore e dalla magia di quell’incontro che, senza calcolo e senza preavviso, ci regala la libertà di essere noi stessi, con tutte le nostre contraddizioni e le nostre fratture, con tutto quello che ci portiamo dentro, compreso l’illusione del controllo e della certezza?