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Palcoscenico

Inusuale volto di Torquato Tasso al Donizetti di Bergamo

Quarto ed ultimo titolo operistico del Bergamo Musica Festival è il raro Torquato Tasso di Gaetano Donizetti – su libretto di Jacopo Ferretti – che dal 1833 giunge fino a noi passando attraverso una sguarnitissima discografia (del 1985 e 1986 con un cast quasi identico) che, in quanto tale, non glorifica quest’opera che sin dalla sua prima esecuzione ha riscosso un successo quasi alienante.
In seguito agli accurati (per l’epoca) studi donizettiani circa lo scrittore, la prima stesura dell’opera nasce in sole sei settimane e viene presto inevitabilmente associata a Il furioso all’isola di San Domingo, e non a caso: composta poco prima, vede come protagonista Giorgio Ronconi, il “furioso per eccellenza”, sul quale poi Donizetti cucirà il suo Tasso, spingendo la scrittura vocale molto frequentemente nel registro acuto, dove il timbro del cantante appariva particolarmente puro e definito – ma non solo per quello: insieme alla già citata opera e a L’esule di Roma, è il terzo lavoro del compositore bergamasco con al suo interno una scena di pazzia maschile. Insomma, una vera e propria rarità.

Il Torquato della coppia Donizetti – Ferretti è, dunque, l’archetipo romantico dell’artista: ipersensibile, sempiternamente malinconico – ed è proprio questa malinconia che va a sostituire la ‘pazzia’ che scolasticamente non si può non citare parlando generalmente dello scrittore; egli stesso scrisse in una lettera ad un amico: “Sono infermo d’un’infermità più noiosa che grave”, ed i medici del tempo sostennero che la melanconia dell’uomo era da “attribuirsi ad una predisposizione naturale aggravata dagli eccessi nello studio, nella meditazione e nell’uso dell’immaginazione”.

Torquato Tasso - una scena

Consapevoli di ciò, possiamo finalmente parlare della trama dell’opera, che si sviluppa su una ‘classica’ base: l’amore. Amore tra Eleonora d’Este e Torquato Tasso in un periodo fiorente della sua vita, che lo vede appunto a Ferrara, città in cui può finalmente esprimere il suo genio. La sua arte però suscita invidie, in particolare in Don Gherardo (cugino del Duca innamorato di un’altra Eleonora, contessa di Scandiano, a sua volta innamorata del Tasso; la coincidenza dei nomi delle donne amate dai due creerà un equivoco) e Roberto Geraldini (segretario del Duca, ‘semplicemente’ invidioso della fama dello scrittore che monopolizza la corte), che riusciranno a distruggere per sempre la quiete iniziale con la diffusione delle rime illecite del Tasso per la duchessa ferrarese. È così che emerge il vero carattere dell’ “infelice”, insofferente al potere politico e ai vincoli sociali ma al contempo instabile e poco legato a quel che è la realtà – realtà che riscoprirà fino alla pazzia, quella vera dettata da Ferretti, con la parola “fine” alle promesse amorose tra lui e l’amata – che andrà in sposa al Signore di Mantova – e con l’esperienza della prigionia, che lo porterà poi via dalla stessa realtà neoscoperta e troppo dolorosa. La sdegnata reazione alla condanna di Alfonso II è resa da Jacopo Ferretti con una forma metrica atipica tanto nella tradizione poetica italiana quanto nella stessa librettistica: cinque distici, ognuno formato da un settenario e un endecasillabo a rima baciata, nel tentativo forse, come suggerisce Stefano Castelvecchi, di evocare una sorta di sonorità arcaica cinquecentesca. Ma Torquato rimane strettamente umano e moderno, dividendosi tra amante / amato ferito e individuo dal forte carattere; questo dualismo si palesa soprattutto nell’atto finale, in cui pare più che fiero del suo esser poeta (Non vi sdegnate, o Cesari) e al contempo umiliato d’esser stato imprigionato per così tanti anni, lontano dallo sfarzo e dalla certezza che da sempre aveva ricercato e che sembrava finalmente aver trovato.

La vivacità del protagonista viene interpretata dal coreano Leo An, che sembra dimenticarsi di donare carattere al ruolo assegnatogli in quanto troppo impegnato nella resa tecnica; il risultato è un Torquato su cui è difficile dare un giudizio, scadendo così nel tipico “senza infamia e senza lode” che però lascia a metà se pensiamo al particolarissimo colore che Donizetti desiderava dare (a tal punto dal comporre un’opera, come si è detto, su di un’unica personalità vocale). Gilda Fiume nel ruolo di Eleonora d’Este risulta invece più che convincente, addirittura sublime, grazie ad un’esecuzione ben scandita e limpida, sia nelle volatine che nei numerosi sovracuti che, ancora, nei bassi – chiaro segnale di un’ottima preparazione di base; non da meno la capacità recitativa, che rende così il personaggio dinamico, sinceramente consumato prima dall’incertezza e poi dalla rassegnazione, sentimenti che la spingono da una parte all’altra del palco, con vivissima partecipazione e successivamente gratificazione da parte del pubblico.
Stranamente più rigido e statico il Roberto Geraldini di Giorgio Misseri, non nuovo nell’ambito operistico e che proprio per questo lascia un poco perplessi: sorvolando su alcuni errori più o meno gravi nel mezzo dell’opera – dovuti forse a qualche respiro toracico finito male – il tenore si presenta indubbiamente con una tecnica buona (che si rivela nelle numerose agilità scritte per il ruolo) ma come incollato letteralmente al pavimento, cosa che va a inficiare non solo sulla recitazione ma addirittura sul timbro che a causa di ciò potremmo definire “tirato” e poco elastico; nemmeno un’espressione facciale che contrassegni il ruolo del “cattivo” tenore (particolarità a livello operistico; Donizetti infatti, in quest’opera, sconvolge il triangolo canonico di tenore – soprano – baritono) che pur di prevaricare è pronto a tutto. Il risultato è un cantante che sembra non trovarsi a suo agio nel ruolo. Buona l’esecuzione di Annunziata Vestri nella sua Eleonora di Scandiano, nonostante la voce a tratti risulti velata; piacevoli i vibrati di Marzio Giossi, purtroppo solo nelle parti ritenute, poche all’interno del personaggio da lui interpretato (che potremmo definire un cugino di Dulcamara per i suoi scioglilingua) – nonostante ciò, il basso è dotato di capacità recitativa, che fa passare in secondo piano l’esecuzione strettamente buffa. Infine, piacevoli Alessandro Viola e Gabriele Sagona, rispettivamente nei ruoli del servitore Ambrogio e del Duca di Ferrara.

Torquato Tasso - una scena

La regia di Federico Bertolani e le scene di Angelo Sala ricoprono il teatro di passione (etimologicamente vista come travaglio) con la frequente presenza del colore rosso – che dipinge addirittura la camicia del prigioniero e le sbarre della cella nel terzo atto – e che permette così allo spettatore di rendersi completamente partecipe dell’ormai confuso mondo di Tasso. Il primo ed ultimo atto sono invasi da fogli – rossi, appunto – scritti dal protagonista, simbolo della completa aderenza tra la sua visione e la realtà in cui vive; sono assenti invece nel secondo atto, poiché è proprio lì che il mondo per il baritono crolla miseramente, come al risveglio d’un sogno, lasciando incapaci di qualsiasi forza, fosse anche solo per cercare un’ispirazione che faccia da barlume in tutta quella disgrazia. Il carattere fiero e disperato viene reso bene dal maestro concertatore Sebastiano Rolli, che risulta pienamente capace di guidare i membri dell’orchestra del Bergamo Musica Festival; un po’ più anonimi e fiochi invece il coro tutto al maschile, sempre del BMF.

Seppur purtroppo con qualche riserva, l’ultima opera in cartellone a Bergamo strappa lunghi applausi e “bravi!” soprattutto da palchi e platea, combattendo così il senso di claustrofobia generato volutamente dal compositore – e che fa sembrare tremendamente basso il tetto del Teatro Donizetti.

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