26 Nov 2014

Bergoglio e la Turchia necessaria

Sarebbe riduttivo analizzare l’attività internazionale di Papa Francesco con le categorie della geopolitica o anche solo con la prospettiva di una difesa sia pur legittima degli interessi del Vaticano e del mondo cattolico. L’approccio di Bergoglio non si basa infatti sulle linee tradizionali di articolazione della politica estera, ma nasce da un’impostazione che privilegia, piuttosto, […]

Sarebbe riduttivo analizzare l’attività internazionale di Papa Francesco con le categorie della geopolitica o anche solo con la prospettiva di una difesa sia pur legittima degli interessi del Vaticano e del mondo cattolico. L’approccio di Bergoglio non si basa infatti sulle linee tradizionali di articolazione della politica estera, ma nasce da un’impostazione che privilegia, piuttosto, la politica mondiale. Si direbbe, in qualche modo, che Bergoglio stia compiendo una sorta di ri-concettualizzazione autenticamente cattolica, vale a dire universalista, della politica internazionale. Le visite del Papa in Corea, Terra Santa, Albania rivelano in effetti un doppio registro, l’uno legato alla concretezza delle fratture locali e regionali, l’altro, ben più ampio, connesso alle loro ripercussioni globali.

A questo riguardo, è interessante osservare che se dal punto di vista socioeconomico il Papa enfatizza, a buon diritto, la rilevanza e la problematicità delle periferie mondiali, da quello della politica internazionale egli invece indirizza la sua azione direttamente al cuore di questioni “centralissime”: la riconciliazione e la sicurezza, come avvenuto durante il viaggio in Corea del Sud; il conflitto israelo-palestinese come epicentro di un movimento “tellurico” di ristrutturazione degli assetti mediorientali dai potenziali effetti destabilizzanti ben oltre l’orizzonte regionale; la questione della convivenza tra culture e fedi religiose come nel caso della piccola Albania, divenuta, inaspettatamente, cartina di tornasole della tenuta politica del fragile assetto politico, sociale ed etnico del mosaico balcanico. In tutti questi contesti, Bergoglio ha parlato a una audience ben più vasta di quella concretamente presente, utilizzando, in qualche modo, le criticità locali come metafore di cleaveages di dimensione planetaria. A venticinque anni dalla caduta del Muro di Berlino – durante il pontificato di un Papa polacco, Giovanni Paolo II – Bergoglio sembra voler attirare l’attenzione del mondo sui muri ancora da abbattere, visibili o invisibili che siano, come la frattura del trentottesimo parallelo tra le due Coree, la “barriera di separazione” tra Israele e Territori Palestinesi, la crescente reciproca alienazione tra mondo ara-bo-islamico e Occidente, impropriamente configurata non solo nei termini di uno scontro di civiltà, ma addi-rittura in quelli di una “guerra di religione”. 

È alla luce di questa nuova concezione fondamentalmente “critica” e non semplicemente “migliorista” del ruolo internazionale del primo Papa post-europeo (non solo in termini di provenienza geografica) che si svolge la visita di Bergoglio in Turchia, un paese di frontiera ma al contempo, e forse proprio per questo, protagonista assoluto di processi di cambiamento e di adattamento, contraddittori e problematici, all’interno di un contesto politico e strategico in ebollizione e in fortissima polarizzazione. È come se i processi di ristrutturazione politica e identitaria in atto in tutta l’area riproponessero l’immagine di un mondo precedente agli accordi Sykes-Picot del 1916, che stabilirono le aree d’influenza nell’imminente spartizione del Medio Oriente tra Francia e Gran Bretagna. La questione della Siria, l’involuzione della Primavera araba, l’Is, il Caucaso, sono scacchieri sui quali Ankara svolge, per scelta o per necessità, un ruolo cruciale. 

Ciò detto, tra l’illusione di una Turchia come avamposto “euro-atlantico” nel cuore di una regione mediterranea e asiatico-occidentale in radicale mutamento e il mito vagamente passatista di una Turchia “neo-ottomana” c’è la realtà politica, strategica e culturale di un paese al tempo stesso centrale e liminare rispetto sia all’Europa che all’area del Mediterraneo e del Medio Oriente. Non a caso la terminologia politologica internazionalistica classifica la Turchia come “insulator”: isolante, spartiacque; potenzialmente, ma non necessariamente, un pacificatore.  

Sono passati solo pochi anni, ma tra la visita di Benedetto XVI (2006) e quella di Francesco il contesto è radicalmente mutato. Ratzinger si recò in Turchia dopo l’ondata di sdegno che il suo discorso di Ratisbona del settembre 2006 (male interpretato) suscitò nel mondo islamico, già sconvolto dalla “guerra al terrore” lanciata da George W.Bush, e per avviare su nuove basi un dialogo con l’Islam che è poi avvenuto e ha portato i suoi frutti. Francesco va in Turchia, nel bel mezzo di una disgregazione – questa volta endogena – dell’assetto medio-orientale anche per riannodare i fili di una storia più antica, quella della presenza del cristianesimo in un angolo di mondo che ne è stato la prima culla, e per continuare il dialogo avviato non solo con l’Islam, ma anche, sia pure in termini diversi, con il Patriarcato Ecumenico greco-ortodosso di Costantinopoli, e in particolare con Bartolomeo I. Da questo punto di vista, sembra più pertinente una comparazione con il viaggio di Paolo VI (1967). Si tratta di una pista che potrebbe aprire altre porte: in prospettiva, quelle di Mosca, anche se ciò rimane, almeno per ora, poco più di un ragionevole auspicio.  

 

Pasquale Ferrara, Istituto Universitario Europeo di Firenze.
 

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