24 Nov 2014

L’unicità dell’Egitto nello scenario mediorientale

Gli eventi rivoluzionari del 2011 e del 2013 hanno posto l’Egitto dinanzi a una serie di sfide sia sul fronte interno sia su quello esterno, favorendo spesso una coincidenza dei due piani nell’agenda politica dei governi succedutisi in questi anni. Se l’instabilità politico-istituzionale ha rappresentato nell’immediato un limite alle opzioni politiche e strategiche del Cairo, […]

Gli eventi rivoluzionari del 2011 e del 2013 hanno posto l’Egitto dinanzi a una serie di sfide sia sul fronte interno sia su quello esterno, favorendo spesso una coincidenza dei due piani nell’agenda politica dei governi succedutisi in questi anni. Se l’instabilità politico-istituzionale ha rappresentato nell’immediato un limite alle opzioni politiche e strategiche del Cairo, soprattutto per ciò che riguarda la gestione delle tensioni nel “cortile di casa” più prossimo, proprio queste sfide hanno tuttavia costituito un’occasione per riconsiderare l’approccio dell’esecutivo in materia di politica estera. 

Approfittando infatti delle rapide evoluzioni politiche nell’area e della riacquisita stabilità istituzionale, l’Egitto di al-Sisi si è caratterizzato sin dalla destituzione di Morsi del 3 luglio 2013 per un tentativo di riposizionamento strategico al centro dello scenario mediorientale che ha comportato necessariamente dei cambiamenti anche nell’approccio nei confronti non solo dei tradizionali alleati, ma anche di nuovi attori della scena regionale. 

In questo contesto il primo grande cambiamento è rappresentato dalla ridefinizione strategica della relazione con lo storico alleato d’oltreoceano, gli Stati Uniti, a causa delle critiche da parte di questi ultimi sorte all’indomani della destituzione di Morsi e della repressione ai danni della Fratellanza musulmana. Si è trattato di una serie di tensioni che ha portato Washington a sospendere una parte dei suoi aiuti militari e finanziari all’Egitto, circa 560 milioni di dollari previsti dagli accordi di Camp David del 1979. Questi fondi sono stati poi sbloccati sul finire del 2013 a causa del timore americano di un riposizionamento geopolitico dell’Egitto verso la Russia di Vladimir Putin, con la quale intrattiene oggi ottimi rapporti politici, economici e militari. Se l’accordo da 3 miliardi di dollari per la fornitura di armamenti militari del novembre 2013 ha rappresentato il primo passo di questo shift da Washington a Mosca, le successive visite di al-Sisi in Russia (tre in tutto, di cui due da ministro della Difesa, e la prossima avverrà questo capodanno a Mosca) e la firma di alcuni accordi di partenariato strategico (come la partecipazione russa nei lavori di ampliamento del Canale di Suez o la possibilità di garantire all’economia egiziana un accesso preferenziale alla zona di libero scambio creata all’interno dell’Unione Doganale Eurasiatica) hanno confermato sia il rafforzamento del trend economico-commerciale, sia l’instaurazione di un nuovo rapporto privilegiato dal punto di vista politico-diplomatico tra Il Cairo e Mosca verso le principali aree di crisi mediorientali/internazionali. 

Parallelamente alla relazione con la Russia, l’Egitto ha coltivato un nuovo asse di ferro con i paesi del Golfo – eccezion fatta per il Qatar – in particolare sui temi della lotta all’islamismo militante e al terrorismo salafita-jihadista.  Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti si sono guadagnate il ruolo di sponsor politici ed economici del nuovo corso egiziano, versando nelle esanimi casse del Cairo complessivamente una dozzina di miliardi di dollari nell’estate 2013. L’intervento non disinteressato delle tre corone ha permesso un allontanamento del Cairo dalle relazioni privilegiate con Turchia – con la quale i rapporti sono stati degradati a livello diplomatico più basso dopo il ritiro dei rispettivi ambasciatori – e soprattutto Qatar, paesi che prima della destituzione di Morsi erano i principali partner economici e politici degli islamisti egiziani. Proprio quest’ultimo aspetto rappresenta la chiave di volta nella postura odierna di politica estera egiziana. Infatti le crisi nel vicinato egiziano (Striscia di Gaza e Libia) e le minacce interne ed esterne delineate dal terrorismo islamista (Sinai, Valle del Nilo e confine libico) rappresentano a oggi, al pari dell’economia, la principale sfida politica per l’Egitto ma anche la maggiore minaccia alla sua sicurezza. 

Nonostante la crisi di Gaza e il successivo coinvolgimento del Cairo nelle trattative tra Israele e Hamas abbiano rappresentato una rilevante opportunità politica che sembrerebbe rispondere a una strategia di ridefinizione del ruolo dell’Egitto all’interno delle stesse dinamiche israelo-palestinesi, il fattore sicurezza ha giocato tuttavia un ruolo decisivo nelle scelte di politica estera egiziana.

Temendo un possibile effetto spill over delle violenze sul proprio territorio a causa delle continue infiltrazioni jihadiste sia da nord-est (da Gaza verso il Sinai), sia da ovest (dalla Libia), Il Cairo ha deciso di alzare il livello di allerta lungo i propri confini, procedendo con un atteggiamento risoluto nel definire una strategia di contenimento della minaccia, a volte di comune accordo con i paesi vicini (si pensi ai rapporti molto buoni con Israele soprattutto in merito al terrorismo nel Sinai e al flusso di armi e uomini dalla Striscia di Gaza), altre volte con gli alleati (come nel caso dei presunti raid aerei egiziani ed emiratini a Tripoli la scorsa estate). La minaccia viene spesso associata al terrorismo islamista e ai timori di una sua presa nel tessuto sociale nazionale, ponendo un concreto problema alla sicurezza interna egiziana contestualmente a quella dell’area mediorientale.

La capacità di valutare la specifica minaccia ha pertanto portato l’Egitto a considerare caso per caso il proprio coinvolgimento nelle principali situazioni di crisi della regione. Se nei confronti della questione siriana o irachena l’approccio egiziano è stato più variegato e per certi versi ondivago, anche nel tentativo – riuscito – di tenere il paese più lontano dalle questioni settarie che stanno caratterizzando gli equilibri mediorientali, questo atteggiamento cambia radicalmente divenendo più assertivo e deciso verso aree ritenute più strettamente strategiche e decisive per la propria sicurezza nazionale, come appunto nei casi delle crisi di Gaza o in Libia.

Il “nuovo” Egitto ha provato dunque a riconquistare parte di quel protagonismo perso nell’ultimo quindicennio, soprattutto sotto Mubarak, puntando a riaffermarsi come un leader credibile nella regione mediorientale, posizionandosi in una netta discontinuità rispetto all’esecutivo Morsi – ad esempio con un atteggiamento di chiusura nei confronti di Hamas nella Striscia di Gaza e più in generale con le potenze (Turchia e Qatar) più vicine alle posizioni islamiste – ma conservando anche alcuni tratti di affinità politica con il passato mubarakiano. 

Se le questioni africane restano marginali e coinvolgono quantunque sia l’aspetto della sicurezza, sia quello economico (si vedano i rapporti con il Sudan o con l’Etiopia relativamente allo sfruttamento delle acque del Nilo), è chiaro che ciò che emerge è l’avvio di una politica estera pragmatica e in parte innovativa che rendono l’Egitto – sostanzialmente stabilizzato – un unicum nello scenario mediorientale.

Giuseppe Dentice, ISPI Research Assistant
 

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