17 Nov 2014

Riforme ed economia, le sfide per al-Sisi

Il grande vertice economico mondiale sull’Egitto non si svolgerà più al Cairo nel febbraio dell’anno prossimo. Per conto dell’ex generale al-Sisi, il ministro delle Finanze, Hany Qadri, ha deciso di posticiparlo a metà marzo, dopo essersi accorto che nel mese precedente il magmatico incontro avrebbe coinciso con le festività del capodanno cinese. «Tenendo in considerazione […]

Il grande vertice economico mondiale sull’Egitto non si svolgerà più al Cairo nel febbraio dell’anno prossimo. Per conto dell’ex generale al-Sisi, il ministro delle Finanze, Hany Qadri, ha deciso di posticiparlo a metà marzo, dopo essersi accorto che nel mese precedente il magmatico incontro avrebbe coinciso con le festività del capodanno cinese. «Tenendo in considerazione il gran numero d’investitori che sarebbero stati assenti», ha spiegato il ministro, «abbiamo deciso di rinviarlo».

Tutto questo significa molte cose nell’Egitto di oggi in cerca di stabilità, fra il terrorismo nel Sinai, i cui tentacoli a volte arrivano al Cairo, un tentativo muscoloso di ripresa economica, un autoritarismo crescente ormai più asfissiante che ai tempi di Mubarak. E l’evidente ambizione di tornare a essere il paese guida della geopolitica regionale. Il rinvio del vertice testimonia inoltre il peso crescente della Cina anche in questa regione: un’importanza solo economica, tuttavia di peso. 

Ma soprattutto, pretendere di organizzare una conferenza economica dedicata a se stesso, pensare che il mondo intero vi partecipi e poi decidere anche di spostarne le date per avere investitori e platea più vasta, è una perfetta rappresentazione di come l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi percepisca se stesso.

Anche nei momenti della stagnazione di Hosni Mubarak e in quelli caotici successivi a piazza Tahrir, l’Egitto si è sempre sentito un paese fondamentale. Oggi con un altro ex generale al comando, dopo il breve periodo civile/islamista di Mohamed Morsi, il sentimento nazionale sempre vivo è solo tornato a rafforzarsi. L’Egitto si sente fondamentale per la stabilità della regione e probabilmente non ha torto.

Il problema è capire se al-Sisi vorrà guidare l’Egitto come quasi tutti i suoi predecessori negli ultimi 5mila anni, o lo condurrà verso un cammino di riforme, di equilibrio regionale e, possibilmente, di democrazia. L’economia è un punto di partenza importante per capire che strada prenderà il nuovo presidente.

«La stabilizzazione del quadro politico e della situazione finanziaria, grazie anche ai consistenti aiuti dei paesi petroliferi del Golfo, ha favorito una significativa ripresa dell’attività economica nella prima metà del 2014», esordisce l’ultimo focus sull’economia egiziana di Intesa-San Paolo. «Nel primo trimestre la crescita del Pil ha accelerato al 2,5%. Nel secondo trimestre l’indice della produzione industriale che copre il 60% dell’intera economia, è aumentato del 4,6%». E ancora più sotto, dice l’analisi dell’istituto di credito italiano che controlla AlexBank, l’unica banca egiziana in mani straniere: «Il sostegno dei paesi amici e la stabilizzazione del quadro politico interno hanno sensibilmente ridotto il rischio di una crisi finanziaria».

È più di una luce in fondo al tunnel. Alla fine di ottobre Moody’s ha modificato da negativo a stabile il suo outlook sul rating dei depositi a lungo termine in valuta locale. E qualche settimana prima la Banca Mondiale aveva aperto un credito da 1,8 miliardi di dollari: servirà per finanziare programmi di edilizia popolare, ma è un segnale di fiducia del quale presto potrebbe tenere conto anche il Fondo Monetario Internazionale, la cui offerta di un credito da 4,8 miliardi è congelata ormai da un paio d’anni.

Sul piano economico il governo del primo ministro Ibrahim Mahlab (cioè il presidente al-Sisi) ha preso due strade, una delle quali coraggiosa: la riduzione dei sussidi, soprattutto nel settore degli idrocarburi, che (non solo in Egitto) drenavano risorse equivalenti all’8% del Pil. Il prezzo della benzina è salito del 78%, del 40% quello del carburante di qualità migliore e del gasolio.

Il secondo impulso all’economia sono le grandi infrastrutture. Prima di tutto il raddoppio di una parte del Canale di Suez: un’opera da quattro miliardi di dollari che con un certo ottimismo dovrebbe essere realizzata entro la fine del 2015, alla quale ne seguiranno altre per creare attorno al Canale una regione di sviluppo economico. Anche il settore privato è impegnato nella progettazione e il finanziamento di grandi opere. L’Orascom Construction Industries di Nassef Sawiris, fratello di Neguib, intende costruire sul Mar Rosso una centrale elettrica da 2,5 miliardi di dollari.

Grandi opere che metteranno in moto grandi investimenti locali e internazionali, e moltiplicheranno i posti di lavoro. Ma la sfida, quello che stabilirà se al-Sisi è un altro faraone o il primo leader moderno dell’Egitto, sono riforme diverse. Anche Gamal, il figlio di Hosny Mubarak, e i suoi tecnocrati, avevano liberalizzato l’economia egiziana permettendo una spettacolare crescita del Pil. Nei numeri, non nella realtà, perché quella ricchezza è rimasta nelle mani delle stesse classi sociali che da sempre governano e si spartiscono le risorse del paese. Le riforme che qualificherebbero Abdel Fattah al-Sisi sono quelle che garantiscono la crescita della piccola e media impresa,  riducendo il controllo della burocrazia e permettendo la crescita di nuovi soggetti imprenditoriali. Democratizzare l’economia, prima della democrazia politica. Ma gli unici segnali che s’intravvedono sono sfortunatamente diversi: indicano un ritorno a un Egitto precedente a quello dei tecnocrati di Gamal Nasser. Cioè al controllo dei militari e delle loro imprese su tutta l’economia egiziana. 

Ugo Tramballi, giornalista de  Il Sole 24 Ore

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