Se l'evasore fiscale si stana sui social

Dieci miliardi di dollari australiani recuperati dal fisco grazie all’analisi dei social che rivelano vite non all’altezza del reddito dichiarato. Se non sei un Rich Kids of Instagram, pensaci due volte prima di postare un nuovo acquisto

E se lo spesometro passasse dai social network? Che le piattaforme siano divenute piedistalli di sfoggio assoluto – a volte perfino criminale – è fuori dubbio. Ma cosa accadrebbe se il nuovo smartphone, la macchina appena immatricolata, la vacanza extralusso, l’acquisto costoso che sfoggiamo finissero** nelle grinfie del fisco?** Dai post e dalle foto su Instagram o Facebook, per esempio, si potrebbero ricavare dati utili a tracciare un identikit del proprio stile di vita. E quindi valutare eventuali discrepanze con quanto dichiarato (e pagato).

È ciò che è successo in Australia, dove una squadra di specialisti nell’analisi dei dati sta dando vita a un progetto lanciato lo scorso anno dall’Australian taxation office, l’ufficio nazionale delle tasse. I proventi del lavoro? Notevoli. Tanto da apparire francamente fuori misura: 10 miliardi di dollari australiani in tributi non pagati recuperati tramite le indagini dei social segugi. La scuola dei figli, gli acquisti, i viaggi, i regali: siamo abituati a una pornografia che mette in pericolo la nostra privacy non solo in termini di sicurezza personale e commerciale ma anche sotto aspetti paradossali: informazioni e notizie che mai saremmo disponibili a fornire in pubblico finiscono ogni giorno in pasto ai nostri “amici” o follower. Magari con l’obiettivo di alimentare le invidie sul proprio stile di vita.

In una famiglia il marito dichiara un reddito di 80mila dollari australiani all’anno e la moglie 60mila – ha spiegato Chris Jordan, responsabile dell’agenzia, al The Australiannoi però, dai post sui social media, riusciamo a capire che negli ultimi anni hanno volato almeno tre volte in business class e fatto una vacanza invernale in un resort di lusso in Canada. Non solo: l’analisi rivela che hanno anche tre figli che vanno a scuola in un istituto privato la cui retta costa 75mila dollari all’anno”. Qualcosa, insomma, non torna. Lo spesometro social, candido poiché spontaneo, ingenuo perfino in tutta l’avventatezza con cui lo nutriamo, parla chiaro. Specialmente quando finisce per incrociarsi con tutti gli altri database, da quello della motorizzazione alle attività finanziarie.

Ma spesso è appunto il mero stile di vita, esposto senza pietà sulle piattaforme, a poter sollevare dubbi sulle tasse e in generale sulle fonti e le origini di certa ricchezza. Accade quotidianamente, perfino fra i nostri contatti, figuriamoci cosa potrebbe saltare fuori da un monitoraggio sistematico che giochi con i big data. Di strumenti per scandagliare i contenuti ce ne sono d’altronde a decine. Nel caso australiano 1.400 contribuenti e 400 imprese sono stati pizzicati e incriminati per reati amministrativi, dalla falsa dichiarazione al mancato rispetto degli adempimenti fiscali. Per 21 sono scattate misure anche più scottanti, cioè penali.

Come la mettiamo con la privacy? C’è poco da obiettare o protestare: quella roba la partoriamo noi stessi, spesso senza pensare ad alcuna conseguenza. Complicato capire quanto elementi così raccolti potrebbero avere un peso nel corso di procedure tributarie. Ma poco importa: servono – come successo in Australia – da calcio d’inizio, campanello d’allarme per lanciare approfondimenti e accertamenti.

Una strategia simile che pure nel nostro Paese è entrata nel vivo dalla scorsa primavera grazie a una circolare di programma dell'Agenzia delle Entrate che ha aperto la strada: non più solo controlli mirati alle banche dati tradizionali della Pa come l'anagrafe tributaria e dei conti correnti. Gli 0017 del Fisco potranno reperire informazioni in ogni modo. Andrà bene anche la foto del resort su Facebook.

Una strada che merita di essere percorsa con fermezza ma certo con attenzione. Sarebbe salvifica in un Paese come l’Italia, patria degli evasori e del nero ma anche dello sfoggio pacchiano e dell’insolenza più sconvolgente. Quella con cui chi sfugge al fisco, magari del tutto, spesso non riesce a non farsene vanto. La Repubblica dei furbetti: quelli che da una parte tacciono e dall’altra espongono su Facebook e compagnia e che una volta tanto pagherebbero a carissimo prezzo il loro incauto narcisismo.