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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2014 alle ore 10:29.
L'ultima modifica è del 27 ottobre 2014 alle ore 08:39.

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Alla Leopolda di Firenze abbiamo assistito alla Bad Godesberg di Matteo Renzi. S'intende che non c'era molto in comune con il processo appassionato e persino drammatico di revisione politica e ideologica del 1959.

U n processo che portò la socialdemocrazia tedesca di Willy Brandt a rompere con il marxismo e ad accettare la logica dell'economia capitalista. Stavolta i conti con la storia si sono fatti in forme assai più sbrigative e mediatiche. Ma si capisce. Non solo il marxismo, ma anche un certo modo di intendere la funzione sindacale e partitica sembrano reperti di un passato remoto. Tutto è stato più o meno già scritto e certe intransigenze sembrano volte a difendere la sopravvivenza di un ceto politico piuttosto che a difendere una prospettiva per il domani.

Le polemiche di Rosy Bindi o di Stefano Fassina ormai non alimentano alcun vero dibattito e al leader del 40,8 per cento appaiono solo punture di spillo indisponenti. La Cgil in piazza con i suoi slogan “retro” gli fa gioco: esalta la supposta modernità del messaggio innovativo che entra ogni giorno, con metodo scientifico, nelle case degli italiani.

In ogni caso la Bad Godesberg renziana costituisce un passaggio significativo. Finisce un mondo. Non solo quello in cui la Cgil e la sinistra di derivazione comunista erano titolari dell'unico potere inattaccabile nell'Italia sfilacciata dell'ultimo ventennio: il potere di veto. Finisce anche il Pd così come l'aveva immaginato e costruito Romano Prodi. Un Pd che teneva insieme, magari in modo velleitario, diverse culture politiche e si sforzava di essere la “casa comune” di ex comunisti, cattolici di sinistra, più qualche liberal-democratico e altrettanti socialisti. Gente che non arrivava mai oltre il 25 per cento, dice oggi sprezzante il premier che è anche segretario di un nuovo Pd in rapida trasformazione, già oggi totalmente diverso da quello di uno o due anni fa.

Agli ultimi rappresentanti di quella stagione, agli ex comunisti che di tanto in tanto rialzano la testa con l'idea di contare ancora qualcosa, Renzi fa capire che possono andarsene o restare: l'importante è che non si illudano di poter gestire uno spicchio di potere, seppure minimo. Su questo punto, niente da fare. Il loro elettorato è minoritario, come è minoritaria la Cgil al giorno d'oggi, quando anche i giovani si rendono conto che non è più tempo di posto fisso. Del resto, la manifestazione di Roma era una sfida aperta al premier e non c'è da meravigliarsi che la risposta sia stata altrettanto dura.

Fin qui tutto chiaro e persino prevedibile. Quello che si capisce meno è quanto siano solide le radici del nuovo Pd renziano. Una volta fatta la Bad Godesberg e saldati i conti non con Karl Marx, bensì con la Bindi, l'interrogativo è: bastano le parole d'ordine nuoviste e un discorso spavaldo per sedurre e catturare l'elettorato di centro e di centro-destra, quello a cui esplicitamente Renzi guarda? Forse sì, data l'assoluta assenza di alternative. Ma le incognite della svolta non sono poche. E non riguardano la malinconica sopravvivenza di un piccolo mondo antico, bensì la capacità di governare l'Italia in tempi calamitosi, quando un certo grado di populismo è inevitabile, ma un eccesso di demagogia può essere fatale.

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