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Questo articolo è stato pubblicato il 13 ottobre 2014 alle ore 08:27.
L'ultima modifica è del 13 ottobre 2014 alle ore 08:28.

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L'Italia ha un problema di reputation da risolvere, ha sostenuto il premier al vertice europeo di Milano. Il Sole 24 Ore di oggi dimostra che anche i cinesi ci osservano. Purtroppo, proprio la condizione di marginalità sociale dei giovani rivela una brutta ferita italiana. Tradisce la dubbia moralità dell'individualismo italico, per cui i padri, vecchi e adulti, sono inclini alla generosità solo con i propri figli (che spesso mantengono), ma, come generazione, sono cinici con i giovani, "i figli degli altri". Il Belpaese è un laboratorio per quanti hanno sostenuto che, con la modernità, il conflitto di classe avrebbe ceduto il passo a quello generazionale.

Il crollo dell'età media dei nostri attuali parlamentari e l'avvento di un governo di "verde" mezz'età lasciavano poi pensare che la sfida generazionale potesse diventare un corpo a corpo, trasversale alla società e alla politica. Al contrario, a tutt'oggi la disoccupazione giovanile è un buco nero, un lascito dell'Italia dell'ultimo quarto di Novecento, ingrandito poi dalla crisi e dall'abbinamento disoccupazione e deflazione, un tandem senza pedali.

Thomas Piketty sostiene che è in corso un travaso di ricchezza dal lavoro e dall'impresa alla rendita. L'Italia che vive di rendita è uno scenario della sconsolata condizione giovanile italiana e dell'estrema cautela dei governanti nel trattare questo buco nero, ormai gigantesco, a corto come sono di risorse. Bisognerebbe smantellare rendite e privilegi diffusi, ma ne soffrirebbero i feudi politici che controllano i rubinetti elettorali. Eppure, siamo di fronte a una marginalità giovanile a senso unico.

Si pensi che il nostro tasso di disoccupazione giovanile (44%) è più di tre volte e mezzo quello totale, mentre anche in Spagna e Grecia è meno di due volte. Come ha osservato in questi giorni l'Ocse, anche il tasso di povertà tra i giovani italiani rivela l'esclusione sociale: quasi il 16% sono poveri, contro l'11% degli over 75. Stessa disuguaglianza generazionale si verifica in modo radicale per i redditi, per non parlare delle pensioni attese. Un presente da squattrinati, senza risparmi, non depone a favore di un futuro migliore: richiede molto più che pochi spiccioli d'investimento o una stentata crescita per essere risolto. È sbagliato però pensare ai giovani come un pianeta omogeneo così come le principali fonti statistiche lasciano intendere. Per esempio, c'è l'estremità "Neet", i giovani disoccupati o inattivi, che non studiano né sono in formazione. Sono in continuo aumento (+5 punti tra il 2007 e il 2012 e terzo tasso più elevato tra i Paesi Ocse). Soffrono la depressione da inattività, la debilitazione di chi è ripiegato su se stesso e sul welfare familiare. Il quadro negativo ha i suoi risvolti sui driver mentali e culturali di una parte dei giovani, primi nativi digitali. Di fronte alle cattive notizie, un numero crescente di loro prende la via dell'estero. Non si tratta di fuga di talenti, ma anche di lavoro manuale giovanile scoraggiato. Ci sono anche i casi positivi di chi lotta con le unghie e con i denti, come quel 20% e più di occupati giovani, nonostante per oltre metà siano precari e ricavino dal lavoro una bassa soddisfazione. C'è anche chi rivendica la propria autonomia professionale e persegue con ostinazione l'autoimpiego e l'imprenditorialità e si scontra con i duri prezzi italiani. Quello giovanile non è un pianeta. È semmai un sistema planetario molto articolato in un universo-paese avverso.

Del resto l'Europa non fa molto di più. Lo Youth Guarantee dispone di 6 miliardi spalmati in sei anni. Al vertice di Milano, la disoccupazione giovanile è finita sottotraccia, com'era prevedibile, visto che è appena il 7% in Germania. Più incisiva è stata l'approvazione dei criteri direttori del Jobs act, apparsa una sorsata d'acqua fresca per chi ha sete, ma richiede forte impegno richiesto in un Paese con un tasso di disoccupazione a due cifre e in cui meno di quattro disoccupati su dieci ricevono un sussidio.

Si tratta di un obiettivo ambizioso per le finanze pubbliche. Anche perché, per far bene le cose, bisognerebbe incentivare lo studio-lavoro e l'apprendistato, responsabilizzare enti locali, scuola e università nella ricerca di lavoro abbinando formazione e, ancora, detassare il mondo dell'impresa e del lavoro. La riduzione del cuneo fiscale resta la porta girevole per una crescita economica incisiva sulla diminuzione dei disoccupati. Vedremo se i decreti attuativi aiuteranno i giovani a liberarsi dalla trappola dell'inattività e dalle sue deleterie implicazioni mentali, come la caduta di motivazione e lo scadimento cognitivo.

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