Riccardo Viti e l’incubo del secondo Mostro di Firenze

Riccardo Viti seminò il terrore tra le prostitute due anni fa, con un delitto a sfondo sadico. In primo grado è stato condannato a vent’anni
Riccardo Viti e lincubo del secondo Mostro di Firenze

La trovano il 5 maggio 2014, legata ad una sbarra in una strada secondaria alle porte di Firenze. Addosso ha solo un paio di scarpe da tennis. Sta sotto a un cavalcavia, in via del Cimitero, a Ugnano, le braccia larghe, come se fosse stata croficissa. Il luogo è meta di prostitute, vicino a campi incolti, ma non distante da un gruppo di abitazioni. Si chiamava Andrea Cristina Zamfir, rumena, 25 anni. E la scoperta fa piombare Firenze nell’incubo di un nuovo Mostro, che colpì nelle stesse zone tra il 1968 e il 1985 coi famigerati duplici delitti. Nella stessa area, di fatto, un anno prima una prostituta italiana era stata violentata, legata a una transenna e rapinata. È lei a fornire l’identikit di un uomo di mezza età, tarchiato, pochi capelli, non molto alto. Un residente rammenta un episodio analogo avvenuto anni prima, ma anche allora la vittima si era salvata. E solo a marzo una ragazza nuda aveva suonato disperatamente ai citofoni, raccontando di essere stata gettata giù da un’auto in corsa. Gli inquirenti contano sei episodi analoghi dal 2006: tutti commessi dalla stessa mano? Non è ancora chiaro. Si sa solo che stavolta Andrea Cristina Zamfir è morta.

Le indaginiSotto la lente d’ingrandimento degli inquirenti finisce il nastro adesivo usato per legarla: appartiene all’azienda ospedaliera Careggi. E sopra c’è un dna rinvenuto su almeno altre tre scene del crimine: luglio 2011 a Prato, marzo 2013 a Ugnano e il 21 febbraio 2014 a Calenzano. Probabilmente l’aggressore ha strappato il nastro coi denti. Ma chi era Andrea Cristina? Arrivata in Italia poco dopo la maggiore età, proveniva da Drobeta Turnu Severin, sulle sponde del Danubio, a 400 chilometri da Bucarest, anche se era originaria di Hunedoara, nella Transilvania. Da là ne n’era andata dopo aver cacciato di casa il compagno che la picchiava. Madre di due bimbi, uno di 3 anni e l’altro di appena dodici mesi, rimasti a Drobeta, non aveva detto in famiglia cosa facesse in Italia per mantenersi. Vengono chiamati i profiler: emerge che le donne aggredite sono tutte minute fisicamente e psicologicamente fragili. Due Procure, Prato e Firenze, si mettono al lavoro incessantemente. E con tutti gli elementi raccolti, è improbabile che l’assassino abbia gioco facile a nascondersi. Infatti lo prendono presto: è un idraulico di 55 anni, Riccardo Viti. Lo arrestano a casa, alla periferia nord di Firenze. Lo incastrano le impronte sulle vittime, il dna. E il riconoscimento fotografico fatto da chi gli è sfuggito. Gli investigatori trovano da lui lo scotch dell’azienda ospedaliera Careggi, dove infatti lavora la moglie dell’uomo, una donna dell’est. Vivono insieme ad un figlio di lei di fianco all’appartamento dei genitori di Viti.

Quando scattano le manette, lui dice: «È finita, è finita. Ormai non mi salva nessuno, sono un uomo finito. Ho fatto una sciocchezza». Sua madre assiste alla scena e si mette le mani nei capelli: «Non ci credo, ma sei tu il mostro di Ugnano?». Poi, turbata, dice ai cronisti: «Non mi ero accorta di niente, credevo fosse un bravo ragazzo ma se ha fatto quello che ha fatto non posso difenderlo. Non ne voglio più parlare». Increduli i vicini, ma Viti, arbitro mansueto e disciplinato di arti marziali che violentava le sue prede con un manico di scopa, confessa. Spiega che non voleva uccidere: la situazione gli sarebbe scappata di mano. E spiega: «Non mi sono fermato quando la donna mi ha implorato di lasciarla andare. Poi sono scappato perché pensavo alla mia famiglia». A lui sono arrivati grazie alle immagini delle telecamere di sicurezza e alla memoria di un poliziotto che ha rammentato come nel 2012, dopo la Notte Bianca, una volante intervenne per sedare una lite tra un uomo e una prostituta: quest’ultima gridava.

Il gioco eroticoLa lite era dovuta al prezzo per un gioco erotico particolare richiesto dall’uomo. Segnalato, il suo identikit corrispondeva a quello fornito dalle ragazze aggredite. Tutte erano state caricate da un tizio su un furgone bianco, un Fiat Doblò, risultato di proprietà del padre di Viti. La caccia è durata tre giorni. Perché lo ha fatto? «Per un senso di rivalsa» sostiene. E, subito pentitosi, scrive una lettera alla madre della donna che ha ucciso: «Non sono ciò che vogliono descrivermi, cioè un serial killer, ma una persona che quella maledetta notte ha perso il controllo della situazione e che non avrebbe mai pensato e voluto che la ragazza morisse. Con questa lettera vorrei farle sapere quanto sono costernato per la perdita che le ho causato. Non ho mai ucciso nessuno perché rispetto la vita di tutte le persone e questo rende ancora più pesante la mia pena». A febbraio 2015 la Procura di Firenze chiede il rinvio a giudizio per omicidio e per cinque aggressioni avvenute tra il luglio 2011 e il marzo 2014 a Firenze e a Calenzano. Per un settimo episodio viene chiesta l’archiviazione. A fine settembre 2015 il gup David Monti lo condanna in abbreviato a vent’anni.