All’inizio degli anni ’90 era diventato l’icona di un’ampia fetta della prima generazione postideologica. I social network non erano neanche immaginabili e ben pochi computer erano collegati a internet con modem a 56k, ma la comunità dylandoghiana si annusava, si riconosceva, si sentiva parte di qualcosa.
A 28 anni dalla sua nascita l’«indagatore dell’incubo», che districandosi tra zombi, licantropi e altri mostri ha sempre investigato gli orrori, le miserie, le debolezze umane, realizza qualcosa che nel mondo dei fumetti non si vede pressoché mai: una «rivoluzione». Annunciata un anno fa.
Si comincia dalla fine di settembre con un numero che sarà un «unicum», fuori dal contesto narrativo, ambientato in un remoto futuro. Il vero cambiamento arriverà in seguito «ma in realtà è una sorta di downgrade, nel senso di un ritorno all’origine. Dylan Dog deve tornare a essere uno che pone domande» dice Roberto Recchioni, che per compiere questo percorso è diventato il curatore di Dylan Dog, subentrando al suo storico creatore, Tiziano Sclavi.
Però ci sono degli elementi nuovi. A cominciare dall’ispettore Bloch che va in pensione. Pensavamo che non l’avrebbe vista mai.
«Noi mandiamo Bloch in pensione perché lo amiamo, non perché non ci piace. Ormai succedeva sempre che Dylan aveva un problema, andava da Bloch e lui glielo risolveva. Faceva le sue battute sugli antiemetici e finiva lì. Adesso tornerà ad avere più spessore».
E al suo posto?
«Ci sarà l’ispettore Carpenter, integerrimo, che odia chiunque sfrutti l’ingenuità della gente. E naturalmente pensa che Dylan Dog sia un cialtrone. Gli ritirerà il tesserino scaduto di Scotland Yard e lo arresterà. Il suo braccio destro, la detective Rania, una donna musulmana, è invece di mentalità più aperta».
Ma la vera novità è l’irruzione massiccia della tecnologia.
«Dylan non cambia: scrive con penna e calamaio, non ha un computer. Parla degli oggetti tecnologici come fanno gli anziani, definendoli "quegli aggeggi". Odia la tecnologia e ha i suoi motivi. Mettiamo uno smartphone in mano a Groucho perché la tecnologia pone domande etiche e morali che un personaggio come Dylan deve porsi».
Tanto è vero che anche il nuovo arcinemico ha a che fare con la tecnologia.
«Tiziano Sclavi ci ha chiesto di non utilizzare più Xabaras. Allora ho creato John Ghost. È un magnate della tecnologia, molto raffinato».
Roberto Recchioni è molto diverso da Dylan anche nell’approccio alla tecnologia?
«Io sono un malato di tecnologia. Oggi come oggi ho tutte le console sul mercato, un pc per giocare. Smartphone, tablet. Sono un tipico prodotto del consumismo tecnologico».
Non le sono mai tremate le gambe nel prendere in mano un mito per cambiarlo?
«La ragione per la quale sono stato scelto io è che sono un "irresponsabile arrogante". La cautela porta Dylan Dog a morire. Da troppi anni viene gestito in maniera cauta. Ci voleva qualcuno che si caricasse il rischio sulle spalle. Certo che sono spaventato, ma non è quel tipo di paura che ferma e impedisce di fare le cose».
Quando ha letto il suo primo Dylan Dog?
«Avevo 12 anni. Era il numero cinque, "Gli uccisori". Ero un onnivoro, che si cibava di tutto quello che trovava in edicola, dal fumetto d’autore a quello popolare. Dylan rappresentava un tratto d’unione tra le due esperienze: nell’ambito del fumetto d’avventura canonico italiano, iniettava dosi massicce di una visione autoriale che era quella di Tiziano Sclavi. Nel leggere Dylan Dog in quegli anni, se avevi l’età giusta, la prima cosa che ti succedeva era scoprire che non eri solo. Tiziano ha parlato a una generazione e ha fatto sì che gli appartenenti a quella generazione si parlassero tra di loro».
Potrebbe nascere un nuovo fenomeno del genere, oggi?
«Credo che i tempi siano diversi. È molto difficile proporre nuove proprietà intellettuali universali. Tutto è stato già fatto, raccontato. Basta vedere quanto Hollywood punti sui remake. Poi i fenomeni sono fenomeni proprio perché arrivano quando arrivano e non si costruiscono a tavolino. Quindi mai dire mai».
L'uomo Dylan Dog, è uno che ha perso?
«Dylan è un perdente. È un perdente per scelta. È uno che sta sempre coi più deboli, fa la scelta meno comoda. Si è innamorato di una che stava nell’Ira e ha lasciato la polizia per quello. Una frase che si è sempre accompagnata alla sua storia è "i veri mostri siamo noi", che a furia di ripeterla è diventata un po’ retorica. Ma in sé possiede una grossa potenza: Dylan si allontana sempre dalla massa per cercare di avere un pensiero autonomo e in questo è uno sconfitto a prescindere. Ciò che lo rende positivo è la speranza che continua a nutrire».