17 Lug 2014

La neutralità: via d’uscita alle divisioni in politica estera?

Quando il Trattato di Lisbona entrò in vigore nel 2009 la speranza era che l’Unione potesse finalmente avere una propria politica estera, capace in ultima analisi di rafforzare le altre politiche comunitarie e dare uno slancio all’integrazione tra gli allora 27 paesi. Fu deciso di dotare la Commissione europea di un proprio servizio diplomatico (circa […]

Quando il Trattato di Lisbona entrò in vigore nel 2009 la speranza era che l’Unione potesse finalmente avere una propria politica estera, capace in ultima analisi di rafforzare le altre politiche comunitarie e dare uno slancio all’integrazione tra gli allora 27 paesi. Fu deciso di dotare la Commissione europea di un proprio servizio diplomatico (circa 5.000 persone con oltre 130 uffici nel mondo) e di trasformare l’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza in un trait d’union tra Consiglio e Commissione, dandogli la carica anche di vice presidente dell’esecutivo comunitario. Per ora, l’iniziativa è stata insoddisfacente. E non tanto per la personalità probabilmente grigia di Catherine Ashton. Troppo spesso, l’Europa si è dimostrata impotente e divisa nell’affrontare le crisi scoppiate negli ultimi anni. L’obbligo dell’unanimità, così come un rapporto di molti paesi troppo stretto con gli Stati Uniti, hanno costretto l’Unione a trovare imbarazzanti e inefficaci posizioni di compromesso.

L’Ucraina, naturalmente, è l’ultimo esempio. I Ventotto hanno faticato a trovare una posizione comune sulla grave crisi scoppiata a Kiev. Gli stati dell’Est, Polonia e Baltici in testa, hanno subito visto nell’atteggiamento russo un nuovo pericoloso segnale del ritorno dell’imperialismo russo in Europa centro-orientale. Gli stati dell’Ovest, guidati dalla Germania, hanno invece tentato di salvaguardare i loro rapporti con Mosca, fosse solo per il ruolo decisivo della Russia nell’approvigionare l’Europa in materie prime. All’atteggiamento russo sempre più aggressivo hanno contribuito di più la guerra civile in Ucraina, o anche l’assertività polacca o baltica associata al tentativo di acquietamento tedesco o italiano? Per mesi, i ministri degli Esteri hanno litigato sul modo migliore in cui affrontare la guerra civile ucraina. Come sanzionare, quanto sanzionare, chi sanzionare? La questione ha diviso l’Unione. Solo il drammatico abbattimento di un aereo malese nei cieli ucraini, con la morte di 298 passeggeri, ha indotto nel luglio scorso i governi a mettere a punto un pacchetto di sanzioni economiche contro Mosca fino ad allora impensabile.

Lo stesso è avvenuto in Siria e in Egitto, due ex dipendenze europee. Il primo paese è ancora oggi teatro di scontri tra forze leali al regime di Bashar el-Assad e ribelli che vogliono imporre un cambio di governo. Per mesi, i Ventotto hanno discusso se armare le forze rivoluzionarie. C’è chi sosteneva l’obbligo di promuovere la democrazia in Medio Oriente; chi temeva di aizzare nuovi disordini; chi voleva preservare la stabilità garantita da Assad; e chi era preoccupato dall’arrivo di nuovi profughi sulle proprie coste nazionali. Obbligata a trovare una posizione comune all’unanimità, l’Unione ha avuto un atteggiamento ambiguo e incerto, segnato dal più piccolo denominatore comune. Lo stesso è accaduto in Egitto, dove al potere dopo la caduta di Hosni Mubarak è arrivato un partito islamista, sostituito successivamente dal controverso ritorno al governo dei militari.

Meglio sono andate le cose quando la leadership europea è stata presa da uno o da alcuni paesi. In Malì o nella Repubblica Centrafricana, in preda a guerre civili, l’Europa ha avuto un ruolo più deciso – si può discutere se più efficace – perché nei due casi la Francia si è sostituita all’Europa, intervenendo militarmente per stabilizzare la situazione. Così è avvenuto anche in Libia, dove a prendere l’iniziativa furono Parigi, Londra e Roma, appoggiate da Washington (ma non da Berlino). Il risultato è stato pessimo – il paese è oggi allo sbando dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi – ma perché la scelta di intervenire provocando un cambio di governo era probabilmente sbagliata in partenza, non per una diretta responsabilità dell’Unione europea. Lo stesso vale per i rapporti dell’Unione con l’Iran. La signora Ashton è stata lodata per avere contribuito da mediatore internazionale e con personale impegno a un accordo sul processo di denuclearizzazione di Teheran. Ma il successo europeo non è stato forse facilitato più che altro dagli interessi convergenti dei tre principali paesi europei – Germania, Francia e Gran Bretagna – e degli Stati Uniti?

L’Unione ha avuto evidenti difficoltà a imporsi in politica estera. L’obbligo dell’unanimità ha certamente avuto un ruolo chiave. Ma non è l’unico fattore. I Ventotto hanno tradizioni politiche diverse. Alcuni paesi sono dotati dell’arma nucleare (come la Francia o la Gran Bretagna); altri non hanno neppure un esercito degno di questo nome (come il Lussemburgo). Alcuni sono ferocemente neutrali (come l’Irlanda); altri sono membri dell’Alleanza Atlantica (in tutto 22 su 28). La presenza di basi militari americane in alcuni stati membri (a cominciare dalla Germania e dall’Italia) non aiuta il rapporto dell’Europa con gli Stati Uniti: in alcuni casi prevale l’impegno a una fedeltà storica (come nel caso di Londra); in altri la stessa presenza militare influenza inevitabilmente le relazioni con Washington e tiene in ostaggio le scelte internazionali del singolo paese.

Molti osservatori metteranno l’accento anche sulla mancanza di carisma e di preparazione della signora Ashton. E’ un appunto legittimo: un sito su Facebook intitolato Catherine Ahston for Nobel Peace Prize raccoglie in questi giorni appena 37 adesioni. In un rapporto del 2013, il presidente della Commissione Affari Esteri del Parlamento europeo, il democristiano tedesco Elmar Brok, ha criticato esplicitamente l’organizzazione del servizio esterno e le doti manageriali della signora Ashton. Al di là delle qualità personali dell’Alto Rappresentante uscente, la scelta di nominare una cittadina inglese in questa posizione è stata discutibile per almeno due motivi. Da un lato, la Gran Bretagna ha una agenda europea propria, troppo spesso in contrasto con quella degli altri principali partner comunitari. Dall’altro, la signora Ashton è l’esponente di una potenza nucleare, paese membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con una visibilità internazionale e i propri specifici interessi di politica estera che raramente corrispondono con quelli dell’Unione.

La più recente crisi ucraina ha dimostrato che per superare le divisioni europee in politica estera, dettate da tradizioni politiche ed economiche troppo diverse tra loro, l’Unione dovrebbe probabilmente optare per la neutralità. Nello stesso modo in cui la laicità permette a un paese e a una società di trovare un terreno terzo per coltivare la tolleranza nei confronti delle diverse religioni, la neutralità consentirebbe all’Europa di evitare imbarazzanti spaccature nel reagire agli eventi internazionali. Una nuova neutralità europea dovrebbe passare inanzitutto da un affrancamento dei paesi membri dell’Unione dal rapporto con gli Stati Uniti, tuttora protagonisti in Europa di troppe scelte nazionali. Gli ultimi scandali sulle intercettazioni americane di esponenti dell’establishment tedesco stanno contribuendo a una attesa e radicale revisione del rapporto tra Berlino e Washington che potrebbe, in ultima analisi, dimostrarsi positiva per la nascita di una politica estera europea.

Beda Romano, corrispondente a Bruxelles, Il Sole/24 Ore.

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