Internazionalizzazione e multilinguismo nelle PMI

Il presente articolo è il mio contributo al libro "Le competenze linguistiche a supporto della mobilità e dell'occupabilità" a cura di Natalia Guido ed edito da ISFOL.

Premessa

L’internazionalizzazione delle imprese, cioè la capacità di poter operare a livello globale, è una caratteristica chiave di sopravvivenza per le PMI. Nell’internazionalizzazione assumono rilevanza fondamentale le competenze linguistiche e non solo queste. I quesiti da porsi sono: esiste un problema di lingue nelle PMI? E se sì, quanto è rilevante questo problema linguistico per le PMI?

Che la competenza multilinguistica sia una necessità di sopravvivenza per le imprese (soprattutto in periodo di crisi) è testimoniato da un recente studio dell’Economic Intelligent Unit della prestigiosa rivista inglese The Economist[1]. I principali risultati dello studio sono le seguenti:

  • al contrario di quanto si potrebbe pensare la crisi attuale spinge per l’internazionalizzazione (necessità di nuovi mercati per la crescita);
  • comunicare e collaborare efficacemente oltre i confini del proprio paese sono elementi critici per il successo finanziario delle imprese con aspirazioni internazionali;
  • le imprese comprendono perfettamente i costi associati a non sviluppare efficacemente al proprio interno e per i propri dipendenti una cultura multilinguistica e multiculturale, ma nonostante questo non fanno abbastanza per vincere questa sfida;
  • le stesse imprese cercano di acquisire nuovi dipendenti con forti competenze linguistiche e multiculturali;
  • i fraintendimenti derivanti dalle differenze culturali sono additati come il principale ostacolo alla collaborazione internazionale.

Lo stesso studio attesta che la mancanza di cultura multilinguistica (e multiculturale) rende la sfida più difficile per i paesi dell’America latina e dell’Europa meridionale e che quindi l’Italia vive in modo più drammatico questo problema, rispetto al resto del mondo. Un altro studio[2] (per quanto non recentissimo e limitato a 300 PMI lombarde impegnate in processi d’internazionalizzazione) identificava nella limitata presenza di persone con le competenze necessarie per supportare i processi d’internazionalizzazione, siano essi commerciali o produttivi, la difficoltà nello sviluppo di tali processi. I risultati dello studio evidenziavano come fossero proprio i problemi di conoscenze delle lingue e dei mercati a provocare tale difetto di competenze.

Appare evidente che la viscosità all’internazionalizzazione da parte delle PMI è principalmente imputabile alla mancanza di competenze multilinguistiche e multiculturali nelle PMI, nelle sue risorse umane, tecniche, manageriali e imprenditoriali.

Infine è in atto una vera e propria rivoluzione nel marketing, soprattutto quello legato allo sviluppo internazionale. L’avvento di internet e soprattutto dei social network ha determinato il passaggio da ”outbound marketing” (quello fatto di brochure e pubblicità, in cui è il proprietario del brand a parlare con tono propagandistico e la clientela ad ascoltare) a “inbound marketing (fatto di blog e contenuti multimediali che alimenta discussioni e conversazioni in cui è soprattutto la comunità dei suspect[3] a imporre i contenuti e il proprietario del brand, il cui tono è di servizio, si descrive raccontando storie). Questo rende i contenuti, il perno portante di ogni attività di marketing. Tali contenuti, per essere coinvolgenti (engaging), devono essere costruiti in modo da raggiungere il cuore e la pancia dei suspect e come tale richiedono non solo un approccio multilinguistico, ma inerentemente multiculturale.

Prospettiva Europea

Si può dire che il problema linguistico (e culturale) delle PMI è un problema europeo e non solo delle imprese italiane. L’Unione Europea ha riservato da sempre un’attenzione particolare alle competenze linguistiche (non fosse altro perché sono più di venti gli idiomi dell’Europa politica) e negli ultimi sette anni ha studiato a fondo il vincolo linguistico nello sviluppo economico delle imprese.

Già nel 2006 con lo studio Elan[4] alcune importanti considerazioni erano emerse:

  • più di un’impresa su dieci delle PMI esportatrici europee (all'epoca se ne contavano quasi un milione, circa un quarto di tutte le PMI europee) perde affari a causa delle barriere comunicative;
  • oltre al già dimostrato rapporto tra gestione delle competenze linguistiche e successo nelle esportazioni, quattro sono i fattori critici di successo: avere una strategia linguistica, impiegare risorse madrelingua, acquisire staff con competenze linguistiche e usare interpreti e traduttori;
  • pur essendo la lingua chiave, l’inglese da solo non è sufficiente. Non solo ci sono altre lingue franche nei diversi mercati target che bisogna utilizzare (il russo, il polacco e il tedesco in molti paesi dell’est europeo; il francese per il commercio in molte parti dell’Africa; lo spagnolo e il portoghese per l’America latina), ma la competenza linguistica e culturale del paese target è essenziale per costruire e mantenere le relazioni di lungo termine che sono necessarie al successo del business.

Le difficoltà non si limitano ai soli aspetti linguistici, ma sono eminentemente legate alle differenze culturali, differenze che possono fare emergere gravi difficoltà (e fallimenti) anche nelle situazioni con cui le imprese hanno maggiore familiarità, generando inefficacia nella comunicazione. A dimostrazione di ciò c’è un altro studio europeo del 2011, PIMLICO[5], svolto studiando a fondo 40 PMI europee “selezionate per la loro significativa crescita commerciale ascrivibile proprio alla formulazione e all'uso di strategie di gestione linguistica”. Anche da questo studio sono emersi importanti risultati:

La crescita del fatturato è attribuibile all'introduzione di strategie linguistiche e in particolare tre sono le caratteristiche più frequentemente citate che hanno avuto un impatto rilevante sulla crescita:

  • sito web in più lingue;
  • assunzione di collaboratori madrelingua;
  • ricorso ad agenti locali.

Gli elementi comuni a queste quaranta imprese di successo sono:

  • multilinguismo: almeno tre lingue, di cui una è l’inglese su cui l’impresa deve avere un elevato livello di competenza;
  • visione globale: utilizzare lingue diverse e in parallelo anche sullo stesso paese target, come l’utilizzo della lingua franca specifica oltre alla lingua nativa (ad esempio l’uso del tedesco in Ungheria) anche attraverso l’uso di agenti locali;
  • strategia d’internazionalizzazione nelle risorse umane: curare le competenze internazionali (approccio internazionale, competenze multilinguistiche e multiculturali) in tutte le risorse umane aziendali (non solo quelle coinvolte direttamente nel processo d’internazionalizzazione), facendole diventare caratteristica essenziale dell’impresa. Questo anche attraverso strategie linguistiche quali:
    • prendere attentamente nota delle abilità linguistiche dei dipendenti e farne buon uso;
    • fare ricorso a personale madrelingua;
    • intraprendere una formazione linguistica e culturale di tutto il personale, inclusi dirigenti e imprenditori che preveda anche la mobilità all'estero del personale;
    • sviluppare una maggiore comprensione interculturale, adattando prodotti, confezioni e comunicazione ai gusti e le tradizioni locali;
    • avvalersi di traduttori e interpreti professionisti;
    • adattare i propri siti Internet alle culture dei paesi di destinazione;
    • collaborare con le università locali per ottenere un sostegno a breve e lungo termine, tra cui anche il collocamento di studenti stranieri e la mobilità estera dei dipendenti.

Lo studio PIMLICO ha anche fornito una serie di raccomandazioni specifiche alla Commissione europea, ai governi nazionali, agli intermediari commerciali, alle PMI e al settore dell’istruzione finalizzata al miglioramento dell’ecosistema del multilinguismo per lo sviluppo economico. Infine, è stato recentemente presentato il rapporto finale di un progetto specifico (CELAN[6]) dell’industria linguistica che ha evidenziato, anche dal punto di vista dell’offerta, le ragioni della scarsa penetrazione degli strumenti linguistici nelle PMI.

A corollario degli studi l’Unione Europea ha, inoltre, realizzato un sito web “Che affare le lingue![7]” per dimostrare come l’uso delle lingue sia foriero di successo sui mercati internazionali e fornire supporto al multilinguismo e al multiculturalismo a tutte le PMI che vogliano intraprendere processi d’internazionalizzazione.

Insomma da anni sono disponibili studi, raccomandazioni e strumenti per migliorare la cultura multilingue nelle PMI. E allora perché la situazione è ancora così problematica? Com'è possibile che a fronte di una pressione competitiva e di crescita verso l’internazionalizzazione dell’impresa questa sia ancora incapace di attivare efficaci strategie multiculturali?

Lingue e skill mismatch

La verità è che anche le competenze linguistiche vivono la criticità nelle imprese, soprattutto PMI, di tutte le altre competenze: ovvero è sempre più difficile avere la persona giusta al posto giusto (“Skill mismatch” o “discrepanza delle competenze”).

Questa difficoltà[8] è causata dai soliti fattori, cioè aumento della complessità, accelerazione del ciclo economico, mutamenti sociali ed economici, ecc., che producono nello stesso tempo la mancanza delle competenze necessarie per le nuove assunzioni (“skill shortage”) e la mancanza delle competenze necessarie ad affrontare le nuove necessità di business nella forza lavoro esistente (“skill gap”). Questi fenomeni sono legati a diversi fattori, tra i principali:

  • variazioni nelle retribuzioni relative (che tendono a non valorizzare le competenze cercate e che spesso nascondono educational mismatch, come dimostrato in studi recenti[9]);
  • la qualità percepita a livello sociale dei posti di lavoro disponibili;
  • il livello di disoccupazione e di sottoccupazione;
  • la sovra qualificazione risultante spesso dalla scarsa capacità di definizione delle mansioni da parte degli imprenditori, che nelle job description preferiscono definire i lavori in modo da destinarli a soggetti “graduate” per sfruttare l’alta disponibilità di laureati, come dimostrato da un recente studio[10].

L’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development, conosciuta anche come OCSE, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico è l’organizzazione internazionale di studi economici per i paesi sviluppati aventi in comune un sistema di governo di tipo democratico ed un'economia di mercato) verifica a intervalli regolari lo skill mismatch nei paesi aderenti. Da questi studi si evince come tale problema sia particolarmente critico in Italia. In un recente studio del Centro ricerche della LUISS[11] si sono evidenziate le seguenti conclusioni:

l’indicatore OECD di skill mismatch mette in luce, da un lato, le inefficienze del sistema educativo che non è in grado di offrire un sufficiente numero di laureati per coprire i posti di lavoro più elevati in termini competenze e, dall’altro, le distorsioni del mercato del lavoro che, come nel caso italiano, può impiegare, per coprire quei posti di lavoro, lavoratori le cui competenze acquisite durante il percorso scolastico non possono essere all’altezza di un lavoro che deve essere svolto da lavoratori altamente qualificati, quali sono i laureati e post laureati.

Le conseguenze dello skill mismatch sul sistema economico sono ben descritte dall’OECD[12], dove lo skill mismatch spiega la bassa produttività, per due motivi: da una parte il sistema d’istruzione non riesce a sostenere i bisogni formativi correnti delle imprese in modo efficiente e, dall’altra, mancano i laureati nelle posizioni che guidano la crescita della produttività. Quindi le aziende non riescono a ad avere nella loro forza lavoro l’insieme delle competenze necessarie a sostenere crescita e innovazione. Questo è proprio ciò che è successo in Italia dove la quota di laureati nelle materie scientifiche e in ingegneria non è di molto cambiata negli ultimi 50 anni impedendo alle imprese di spostare le proprie attività produttive verso segmenti più innovativi.

In pratica nel nostro paese pochissimi fanno un lavoro adeguato alle proprie competenze. Secondo Randstad Workmonitor: skills mismatches & finding the right talent[13], l'ampia ricerca condotta su 15.000 lavoratori in 32 paesi dall'agenzia di selezione del personale Randstad, meno del 20% dei dipendenti italiani ritiene di avere le competenze adeguate al posto di lavoro che occupa. Questo valore, tra i più bassi in Europa, è figlio soprattutto dello Skill gap, legato alla scarsa dinamica del nostro mercato del lavoro. La rapida obsolescenza delle competenze della forza lavoro esistente richiede interventi che vanno di là del semplice problema del multilinguismo per l’internazionalizzazione, cui comunque le istituzioni hanno cercato di porre rimedio con strumenti e risorse finalizzate alla formazione continua dei lavoratori.

La formazione come soluzione possibile: il caso dei fondi interprofessionali

La formazione è lo strumento più adatto per sviluppare le competenze necessarie. Oltre il sistema di istruzione, di alta formazione e di formazione professionale, il sistema che ha un impatto immediato sulle competenze dei lavoratori già presenti in azienda è la formazione continua, ovvero la formazione dei lavoratori dipendenti. La formazione continua ha visto crescere la sua importanza non soltanto per effetto della riduzione dell’arco temporale del ciclo di vita del prodotto (e, quindi, di veloce obsolescenza delle competenze acquisite), ma perché diventa elemento di sopravvivenza delle PMI, dove il capitale umano è il fattore critico di successo dell’impresa.

Spesso si crede che le risorse finanziarie siano l’ostacolo principale alla realizzazione di efficaci piani di formazione continua; per questo all'inizio di questo millennio sono stati introdotti meccanismi per la costituzione di fondi dedicati alla formazione continua dei dipendenti delle imprese italiane. Con tutti i limiti del caso, i Fondi interprofessionali hanno rappresentato una storia di successo per la realizzazione di formazione continua nelle imprese italiane: in soli sette anni dalla loro introduzione quasi il 60% delle imprese e oltre il 70% dell’intera forza lavoro italiana aderiscono a un fondo di finanziamento della formazione continua[14].

Dal “XIII Rapporto sulla formazione continua” emergono risultati incoraggianti, come la crescita dell’utilizzo della formazione nelle imprese anche in presenza di una forte crisi economica. Purtroppo nello stesso rapporto si evidenziano risultati che dimostrano come a beneficiare siano soprattutto:

  • le aziende medio-grandi. Ad esempio a fronte di un 31% di PMI che ha compiuto nel 2011 corsi di formazione (e un 26% di personale che ha partecipato ai corsi), abbiamo un 35% a livello globale (e un 33% di personale) e circa il 70% da imprese con più di cinquanta dipendenti (e tra il 31% e il 51% di personale)[15];
  • le competenze necessarie a svolgere le mansioni già assegnate e non per nuove mansioni, come richiesto dai processi d’internazionalizzazione o d’innovazione; ciò si evince dal fatto che l’82% dei corsi effettuati, e oltre al 42% dei piani finanziati dai fondi interprofessionali, siano finalizzati al mantenimento/aggiornamento delle competenze, dimostrando la presenza del forte skill gap della forza lavoro[16] del nostro paese.

Purtroppo la formazione linguistica è quella che si adatta peggio alla realtà aziendale: richiede più tempo, lavoro e impegno da parte di personale chiave e in una PMI, soprattutto italiana (e, quindi, per definizione “sotto staffata”) il tempo del personale chiave è spesso un ostacolo insormontabile alla realizzazione di percorsi formativi efficaci. Infatti, nonostante i piani con finalità specifiche per l’apprendimento delle lingue straniere[17] siano circa il 10% del totale e coinvolgano il 3,5% dei lavoratori (impegnando circa il 15% delle risorse investite, a dimostrazione della maggiore complessità e durata dell’apprendimento delle lingue), essi sono in calo rispetto al 2010. Nel rapporto non c’è un confronto della formazione linguistica nelle diverse classi dimensionali delle imprese italiane. È però possibile stimare come il peso della formazione linguistica nelle PMI sia inferiore rispetto alle imprese più grandi, considerando che, nello stesso periodo coperto dal XIII Rapporto sulla formazione continua, i piani finanziati dal FAPI – Fondo Formazione PMI, che associa oltre 50.000 PMI manifatturiere, i piani con finalità specifiche per l’apprendimento delle lingue straniere siano stati solo il 5,5% del totale, quasi la metà del dato a livello nazionale. Anche in questo specifico il dato è in calo rispetto al 2010[18].

C’è da aggiungere, infine, che anche il livello d’istruzione ha un impatto sulla formazione continua. Nella sezione dello stesso “XIII Rapporto sulla formazione continua” che riguarda la formazione d’imprenditori, manager e lavoratori autonomi, si afferma che:

l’indagine conferma, inoltre, un’ipotesi formulata precedentemente con uno studio sulla formazione dei titolari di micro impresa, ovvero la forte correlazione tra il livello di istruzione del lavoratore autonomo e la percezione dei fabbisogni formativi: più è alto il titolo di studio e più è frequente il ricorso alla formazione. Infatti, 87,9% dei lavoratori autonomi laureati ha fruito di iniziative di formazione continua per un totale di 14,1 giorni nel corso dell’ultimo anno, a fronte di 4,1 giorni dichiarati dai lavoratori con titoli di studio più bassi, fino alla licenza media.[19].

Conclusioni

Abbiamo visto, quindi, come scarse competenze e strategie linguistiche e culturali finalizzate al multilinguismo e alla multiculturalità siano fattori di blocco dell’internazionalizzazione delle PMI. Gli ostacoli principali per colmare tali lacune e acquisire le competenze linguistiche necessarie all’attivazione di processi d’internazionalizzazione sono i seguenti:

  • la dimensione d’impresa;
  • il tempo necessario alla formazione linguistica delle risorse chiave;
  • lo skill gap della forza lavoro, anche manageriale e imprenditoriale legata a un mancato ricambio generazionale;
  • il livello d’istruzione dei quadri, dirigenti e degli imprenditori legato al fattore generazionale delle PMI, considerando la natura, eminentemente manifatturiera e la genesi delle imprese, nate da personale tecnico con un livello d’istruzione spesso basso (si pensi alla filiera meccanica dell’Emilia in generale e a Enzo Ferrari in particolare).

In conclusione le PMI italiane hanno difficoltà ad attivare percorsi efficaci per l’acquisizione di competenze multilinguistiche e questo nonostante la disponibilità di risorse finanziarie finalizzate alla formazione continua. Più delle risorse economiche conta per le PMI un più diffuso ricambio generazionale (imprenditoriale, manageriale e della forza lavoro operativa) al proprio interno. L’attivazione del ricambio generazionale favorirà la crescita delle competenze multilinguistiche e culturali anche attraverso un maggiore ricorso ai nuovi strumenti internet di marketing, socializzazione e formazione.

La familiarità con questi nuovi strumenti consentirà da un lato alle imprese di raggiungere più semplicemente i propri potenziali clienti (suspect) internazionali e dall’altro, stimolerà la crescita delle competenze dei lavoratori, imprenditori e manager attraverso i numerosi strumenti di autoapprendimento a distanza (tipo i MOOC[20]) che, uniti a brevi incontri faccia a faccia (finanziati magari dai fondi interprofessionali) possono:

  • ridurre il vincolo del tempo necessario all'apprendimento delle lingue;
  • creare più opportunità d’incontro e collaborazione, oltre che di mobilità, all'estero;
  • garantire una più efficace acquisizione delle competenze necessarie all’internazionalizzazione.

Perché tutto ciò possa avvenire, però, è necessario rafforzare la cultura del multilinguismo e della mobilità di studio nelle giovani generazioni, soprattutto nel periodo d’istruzione e alta formazione, e questa è una necessità politica che riguarda tutti noi cittadini, non solo le PMI e i propri dipendenti.



[1] Competing across borders - How cultural and communication barriers affect business, pubblicato il 25 aprile 2012 su internet (http://www.managementthinking.eiu.com/competing-across-borders.html). Una inchiesta che ha coinvolto 572 manager a livello globale.

[2] IRER – Istituto Regionale di Ricerche della Lombardia “Internazionalizzazione, risorse umane e fabbisogno formativo nelle PMI lombarde” Working paper n.3 dicembre 2006.

[3] Si definisce suspect qualcuno che potrebbe non conoscerti per il tuo prodotto, ma che è interessato a ciò che conosci, non a ciò che vendi.

[4] “ELAN: Effects on the European Economy of Shortages of Foreign Language Skills in Enterprise” studio commissionato dall’Unione Europea, Dicembre 2006.

[5] “Report on Language Management Strategies and Best Practice in European SMEs: The PIMLICO Project” studio commissionato dall’Unione Europea, Aprile 2011.

[6] “Celan Wp2 Deliverable 2.5 - Final report of Wp2, including a list of provisional recommendations” 21 Gennaio 2013.

[7] Un sito in tutte le principali lingue dell’UE incluso l’italiano.

[8] “Hai quello che serve? Lo skill mismatch in Europa” CEDEFOP NOTA INFORMATIVA giugno 2010.

[9] Francesca Sgobbi DIMI-University of Brescia (I) & DINAMIA-CET (P) “The skill match of young graduate employees: An empirical analysis based on REFLEX data DEHEMS Conference WU Vienna University of Economics and Business, Vienna, 22-23 September 2011” e Gian Carlo Cainarca, Francesca Sgobbi, (2012) "The return to education and skills in Italy", International Journal of Manpower, Vol. 33 Iss: 2, pp.187 - 205

[10] Giorgio di Pietro Peter Urwin, University of Westminster “Education and skills mismatch in the Italian graduate labor market” Royal Economic Society Annual Conference 2003 n. 59.

[11] "Economia della Formazione e delle Professioni - Mismatch tra domanda e offerta di lavoro: i principali indicatori di fonte internazionale" Ricerca a cura del Centro Studi LUISS presentata nel Convegno ''Formazione, competenze e competitività delle imprese'' novembre 2011.

[12] “OECD Economic Surveys: Italy 2011”, 09 Maggio 2011.

[13] Randstad Workmonitor "Skills mismatches & finding the right talent" 10 Settembre 2012.

[14] I dati riportati si riferiscono al “XIII Rapporto sulla formazione continua - Annualità 2011 - 2012” Dicembre 2012, rapporto annuale elaborato da Isfol per conto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

[15] Idem Tab. 1.2 p. 18 e Tab. 1.5 p. 22

[16] Idem Tab. 1.4 p. 20 e Tab. 4.18 p.105

[17] Idem Tab. 4.21 p. 108

[18] Elaborazione dell’autore su dati FAPI

[19] “XIII Rapporto sulla formazione continua - Annualità 2011 - 2012” Dicembre 2012, Tab. 5.8 p. 137

[20] Massive Open Online Courses sono dei corsi online aperti pensati per una formazione a distanza che coinvolga un numero elevato di utenti

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