Presidente, altri corpi senza vita raccolti in mare dai nostri uomini, dai mezzi della marina militare e delle capitanerie di porto. Come crede che si possa passare da una stagione dell’emergenza permanente a una più coerente politica di governo dei flussi migratori?

«In questo caso non si può parlare di politica di flussi migratori. Qui siamo di fronte a flussi di richiedenti asilo, di persone che scappano da guerre e violazioni dei diritti umani. Tutto questo dipende da quanto sta accadendo intorno a noi. E se non fosse chiaro che ai nostri confini stanno aumentando le aree di instabilità e di crisi, le cifre ce lo spiegano: per la prima volta dal secondo dopoguerra il numero dei rifugiati al mondo ha superato quota 50 milioni. In Siria ci sono oltre 10 milioni di persone fuori casa, e 3 milioni hanno trovato rifugio nei paesi confinanti. In Libano, un piccolo Paese di circa 4 milioni di abitanti, si sono riversati un milione di siriani. Come se in Italia ne fossero arrivati 15 milioni; mentre siamo a quota 100mila, di varie nazionalità, e già sembrano tanti, troppi. Certo, è vero che l’accoglienza in Italia andrebbe strutturata una volta per tutte, con risposte calibrate a seconda del numero degli arrivi. Ma questo purtroppo ancora non accade: ogni volta è “emergenza” e si ricomincia da capo».

Mare Nostrum sembra finita sul banco degli imputati, colpevole di attrarre i disperati, di fomentare l’industria del traffico di merce umana. Qual è la sua valutazione dell’operazione Mare Nostrum? Crede che debba continuare ad operare o bisogna passare a una nuova fase?

«La mia è una valutazione piena di orgoglio per quello che l’Italia ha fatto e sta facendo. Mare Nostrum è un’operazione meritoria, l’unica dopo anni di inerzia colpevole. Metterla sul banco degli imputati vuol dire non aver a cuore la vita umana. Ed è assolutamente irrealistico pensare che chi fugge dai bombardamenti o dalla follia estremista lo faccia perché è a conoscenza di Mare Nostrum. Detto questo, da sola non basta, perché cura i sintomi, non la malattia. La malattia va ricercata nelle motivazioni della fuga, ed è lì che bisogna agire con più efficacia: nel rilanciare i negoziati di pace, nel rafforzare i processi di democratizzazione, nel porre le basi per uno sviluppo sostenibile dei Paesi più svantaggiati. L’Europa potrebbe avere un importante ruolo, se fosse capace di agire in modo unitario».

Il commissario europeo Malmstroem incontrerà il ministro Alfano mercoledì prossimo per definire le priorità e provvedere a un’eventuale assistenza, richiamando anche tutti gli Stati membri a impostare un’azione che vada in direzione del resettlement, una proposta che lei stessa ha sempre sostenuto. Crede che Bruxelles abbia gli strumenti per poter effettivamente prendere decisioni concrete?

«Decisioni concrete possono essere prese se c’è la volontà politica di mettere in atto alternative alla traversata del mare. In altre parole, bisogna dare ai richiedenti asilo un’ulteriore possibilità anziché lasciarli alla mercé dei trafficanti. Va sicuramente in questa direzione il “resettlement”: vuol dire fare domanda d’asilo presso l’Unhcr nei Paesi di transito, come la Libia. A chi viene selezionato si dà la possibilità di essere trasferito legalmente e senza rischi nei Paesi che ne offrono la disponibilità. Ed è a questo punto che subentra la volontà politica. Purtroppo negli anni scorsi, mentre Stati Uniti, Canada, Australia hanno offerto a decine di migliaia di persone questa opportunità, i Paesi dell’Ue non hanno certo brillato».

Siamo ormai a oltre 107.000 sbarchi dal primo gennaio. L’Italia viene accusata di favorire se non di sollecitare il trasferimento di molti profughi negli altri Paesi europei. Non crede che anche su questo fronte ci sarebbe bisogno di un coordinamento migliore?

«L’Italia, nonostante gli enormi sforzi riconosciuti in queste ore anche dalla Commissione Ue, viene accusata da alcuni Stati europei di non identificare chi arriva e di non offrire un’accoglienza in base agli standard dell’Unione, così da consentire ai richiedenti asilo di lasciare il nostro Paese per arrivare dove esistono migliori condizioni di welfare e avanzare lì la domanda d’asilo. Come è noto, infatti, in base alla Convenzione Dublino 3 è il Paese di primo approdo del richiedente a doversi far carico della procedura d’asilo: lasciarli andare significa dunque non rispettare gli impegni presi con gli altri Stati europei. In questa contestazione vi è anche un monito: se noi vogliamo ottenere più condivisione e sostegno europeo per il soccorso in mare, dobbiamo fare la nostra parte nell’accoglienza, senza dare quindi l’impressione di voler scaricare le nostre responsabilità sugli altri. Se lei fosse un richiedente asilo, non cercherebbe di raggiungere un Paese dove può avere una migliore accoglienza anziché rimanere in quello dove si deve arrangiare? Per questo è importante che vi sia un’armonizzazione degli standard: per evitare che tutti vogliano andare dove si sta meglio, con le inevitabili tensioni tra Stati che ne derivano».

Il governo italiano è impegnato a convincere l’Europa a garantire che Frontex, la polizia di frontiera della Ue, sostituisca Mare Nostrum nelle operazioni umanitarie. Ma non le sembra che i tempi siano troppo lunghi rispetto alle risposte da dover dare oggi?

«Il primo problema da affrontare è che il mandato di Frontex non prevede il monitoraggio e il soccorso in mare, ma solo il controllo delle frontiere esterne. Recentemente ha anche recepito il principio del non respingimento in mare dei rifugiati. Dunque si tratterebbe di procedere su questa strada per arrivare ad un ampliamento, sempre a condizione che ci sia la volontà degli Stati membri. Nel frattempo, il Mediterraneo non può rimanere sguarnito: non in questi tempi di tensioni e guerre in cui i civili tentano di mettersi in salvo. L’onere delle conseguenze delle guerre non può ricadere solo sui Paesi poveri confinanti. In questo difficile contesto ci deve essere una collettiva assunzione di responsabilità».

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