analisiIL CASO

Facebook, o della vulnerabilità dei colossi dell’high tech

di Marco lo Conte

Foto Reuters

3' di lettura

Ogni gigante ha il suo tallone d’Achille. I big dell’high tech mostrano muscoli in grado di ridisegnare interi settori economici e di produrre mutazioni profonde nelle relazioni umane tra individui. Ma ciascuno ha un punto debole strettamente connaturato con ciò che una volta veniva definito la “killer application”: il rigore dell’organizzazione logistica di Amazon è valso al gigante dell’e-commerce molte accuse sulle condizioni di lavoro degli addetti.

Sulla vicenda Cambridge Analytica, Facebook oggi rischia molto di più. Finché il problema riguardava la strumentalizzazione della piattaforma a fini politici utilizzando fake news, il social fondato da Mark Zuckerberg è riuscito a reagire imponendo policy più rigorose sulla trasparenza delle informazioni o sulla pubblicazione di contenuti violenti e lesivi della sensibilità del suo sterminato pubblico. E a tranquillizzare chi si preoccupa per la qualità della democrazia nei paesi più sviluppati. Ma ora che in gioco c’è il suo giacimento di petrolio - i big data riguardanti due miliardi di persone - il discorso cambia: che garanzia si può dare sull’assoluta correttezza dei comportamenti dei propri dipendenti? Basta la certezza al 99,99% sull’efficacia delle proprie policy interne per non perdere la propria reputazione sul mercato? Cinquanta milioni di iscritti “violati” - secondo quanto risulta dalla vicenda Cambridge Analytica - sono un effetto collaterale tollerabile?

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Proviamo un parallelo con altri settori: la consulenza finanziaria, ad esempio. Solo una percentuale inferiore allo 0,5% dei professionisti che seguono il risparmio degli italiani mostra comportamenti lesivi delle norme in vigore. Ma il clamore provocato dall’insorgenza di questi casi è notevolmente superiore alla rilevanza statistica di questi casi. E come potrebbe essere altrimenti? La differenza di questi contesti con Facebook è che per il social media più diffuso al mondo il margine di tollerabilità è molto più risicato se non nullo: se anche solo un dato diventa oggetto di transazioni illecite, le ripercussioni vanno di molto sopra i toni del clamore. Dal “blue social” il mercato - utenti e inserzionisti - si aspettano un livello di efficienza non dubitabile, in termini di protezione dei dati.

Non a caso da tempo si registrano richieste al social media di concentrarsi di più sulla qualità delle conversazioni e dei contenuti, che sulla quantità: inevitabile per una prima fase privilegi il tanto, ma viste le difficoltà di costruire un ecosistema digitale idoneo, inserzionisti, publisher e utenti chiedono qualità. E lo chiedono riducendo, per esempio, il tempo di permanenza su Facebook o le condivisioni: secondo il report “Content Trends Report 2018” pubblicato da Buzzsumo, solo il 5% dei post pubblicati ottiene condivisioni quantitativamente rilevanti, il resto è “social spam” (o quasi), complice la stretta anti fake news imposta di recente all’algoritmo dal team di Facebook. “La viralità è morta, ora c’è la reputazione”, titolava giorni fa Datamediahub, think tank guidato da Pierluca Santoro, per commentare il trend in atto.

Già, la reputazione. Se per una social media company i dati sono i ricavi, per Facebook gli utili sono la reputazione: quella che emana dai profili e dalle pagine dei proprio utenti, quelle stesse che accolgono inserzioni che valgono all’exi sito pensato da Zuckerberg per mettere in collegamento colleghi di università, 40 miliardi di dollari di ricavi l’anno e 16 miliardi di dollari di utile. La partita di Mark è tutta lì: fare in modo che il suo tallone d’Achille non venga infilzato da una freccia durante la contesa per la conquista dei dati.

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