Pareggio storico negli Stati Uniti
Le donne che lavorano
hanno raggiunto gli uomini
Qualcosa di strano sta succedendo in questa lunga coda della crisi iniziata nel 2007. Sta succedendo una cosa che non era nei modelli degli economisti o nei prezzi a termine dei derivati sottoscritti dai banchieri. Sta succedendo, semplicemente, che le donne se la cavano meglio. O quando proprio non riescono a cavarsela meglio, se non altro non si arrendono.
Le indicazioni arrivano da molte parti. Negli Stati Uniti per esempio l’ondata di piena della disoccupazione ha investito in primo luogo gli uomini e solo in misura inferiore le loro partner. La tendenza è così pronunciata da aver portato a un pareggio storico – oggi la forza lavoro attiva è composta al 50% dagli uni e al 50% dalle altre – che presto potrebbe diventare sorpasso: l’anno prossimo in America potrebbero esserci più donne che uomini al lavoro, perché no?
È vero, sarebbe un sorpasso in discesa e i dati del crollo dell’occupazione maschile sono paurosi, niente da festeggiare. Il 35% degli uomini nel pieno delle forze (25-54 anni) ma senza istruzione superiore sono disoccupati, quando negli anni ’60 in quello stato si trovava solo il 10% anche dopo una recessione.
Quel che è successo in parte è chiaro. La grande crisi ha distrutto attività prevalentemente maschili, nell’edilizia o nelle fabbriche. Le attività che in proporzione assorbono invece più donne, dalla sanità all’insegnamento, si sono salvate decisamente meglio o addirittura sono cresciute.
Ma questa è solo una parte della storia: l’altra faccia è che oggi in America esistono più studentesse che studenti nei ranghi dell’istruzione superiore e che le ragazze rivelano una maggiore tenuta nel rendimento scolastico. I dropouts maschi, gli esplusi dal sistema scolastico, sono più frequenti. Ciò a sua volta influenza la capacità delle ragazze di trovare lavoro in un’economia sempre più innervata da tecnologie che richiedono un buon livello di istruzione.
I dati sugli altri Paesi del G7 raccontano storie simili sull’universo femminile:
minore declino dell’occupazione, maggiore persistenza scolastica, superiore capacità di adattamento alla trasformazione tecnologica quando l’economia si contrae.
E poi prendete la Grecia. Quello che sta accadendo laggiù sarebbe uno studio appassionante sull’antropologia dell’europeo contemporaneo, non fosse così tragico. Anche in Grecia è successo che l’occupazione maschile è entrata in quella macchina distruttrice che chiamano recessione. Licenziati nei cantieri edili, licenziati nei cantieri navali, licenziati nelle piccole imprese (una su quattro ha già chiuso). Invece le donne sono riuscite a mantenere meglio i loro posti, in prevalenza nell’amministrazione pubblica o nei servizi, eppure curiosamente nelle statistiche la disoccupazione femminile è cresciuta tanto quanto quella maschile, più 4% in un anno.
Possibile? Secondo gli esperti, sì. Molte donne che prima stavano a casa si sono gettate controcorrente alla ricerca di un lavoro proprio mentre i loro uomini restavano a terra. Per questo ora emergono nelle statistiche come disoccupate mentre prima stavano semplicemente a casa, rinunciatarie.
Insomma, quando il gioco si fa duro, le donne si stanno facendo carico di far quadrare i conti in famiglia.
Potremmo discutere a lungo sul perché. Provo a fare due ipotesi per spiegarmi questi cambiamenti nel mondo post-2008 che hanno tutta l’aria di voler durare per la prossima generazione.
La prima è che
le donne hanno avuto accesso all’istruzione superiore più tardi, dunque la trattano come una conquista preziosa perché niente affatto scontata.
La seconda è che
l’abitudine alla cura degli altri – i figli, i genitori anziani, i mariti, i nipoti – rende le donne di queste generazioni più agili mentalmente. Più capaci di adattarsi al cambiamento continuo degli strumenti e dei modi di lavoro. Più pronte a evolvere con le tecnologie in ufficio o con le nuove circostanze sociali.
Chissà, magari sono fuori strada. Ma voi che ne pensate?
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Non consideriamo questo Blog uno spazio femminista o anti-femminista.
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Che voi non lo consideriate tale è comprensibile. Certo non è anti-femminista, su questo l’accordo è pacifico. Sull’altra tesi invece è necessario introdurre una diversa prospettiva, che suona provocatoria. Si tratta di riconoscere agli uomini lo stesso potere che giustamente si assegna alle donne, quello di stabilire da sé, di definire autonomamente il significato, il valore, il senso di tutto ciò che esiste. Oggi questo non vale per gli uomini, ma è necessario rassegnarsi al fatto che in futuro varrà.
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Ciò posto, la definizione del significato, del valore e della collocazione di questo blog, per quanto riguarda gli uomini, vengono stabiliti dagli uomini, da cui segue che questo è un blog femminista, nella sua ideazione, nei suoi contenuti, nei suoi fini. La cosa da fastidio? Non importa. Importa solo che il vissuto maschile è definito dai maschi, non dalle femmine.
Le intenzioni, gli scopi, il senso che noi diamo alle cose è un fatto separato dal giudizio altrui, dagli effetti che l’azione ha sugli altri. Sta agli altri giudicarla, non a noi.
Vale per le donne, ok. D’ora in avanti varrà anche per gli uomini.
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Voi giudicate (e condannate e querelate) gli uomini sulla base del vostro vissuto, non delle intenzioni maschili. Noi incominciamo a fare altrettanto. Le intenzioni non contano nulla in questo conflitto. Quello che voi avete avviato 50 anni fa.
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Come sia possibile che uno spazio femminista consenta la pubblicazione di interventi antifemministi è uno dei miracoli del liberalismo, come detto in altro commento. Finchè dura.
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Div. Men.
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Alcuni tra voi – le firme maschili che a tratti scrivono in questo Blog non tanto diversamente – rappresentano tutti gli uomini?
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E dunque: il significato e la collocazione che tale gruppo dà a questo Blog assumono valore assoluto per l’universo maschile (italiano o mondiale o solo occidentale? Questo non risulta chiaro)
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Accipicchia
Dall’aver io scritto “…per quanto riguarda gli uomini, vengono stabiliti dagli uomini, da cui segue che questo è un blog femminista” si è voluto ricavare che pretenderei di parlare a nome di tutti gli uomini. Deduzione che ha il fine di ridicolizzarmi come saccente e presuntuoso. Se fosse giustificata, se ne dovrebbe però controdedurre che tutti gli uomini hanno il diritto di definire il mondo secondo la propria esperienza: salvo io.
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Una verità svelata
La deduzione è capziosa, eppure svela un’innegabile verità universale. E’ vero infatti che coloro che parlano (sia o meno nelle loro intenzioni, siano essi presuntuosi o no) lo fanno anche a nome di quelli che tacciono. Precisamente quel che è accaduto nella lunga storia del femminismo, dove le parole di un’esigua minoranza sono diventate il vangelo di (quasi) tutte/tutti e i valori di poche pioniere sono stati imposti all’intera società silente.
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Accade inevitabilmente, ad onta di quel che vorrebbero gli uni e gli altri: chi parla, parla anche a nome di chi tace.
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Div. Men.